Con Rosi la Berlinale è dei migranti
L’Orso d’oro a “Fuocoammare” cosacra internazionalmente il cinema del reale dell’autore italiano, già Leone d’oro con “Sacro Gra”. E conferma la volontà dei programmers del festival di fare di Berlino 2016 il luogo simbolo della denuncia del dramma dei rifugiati …
“Il mio pensiero va a coloro che hanno attraversato il mare e ai tanti che non ce l’hanno fatta”. È un Gianfranco Rosi emozionato, commosso quello che sabato sera, il 20 febbraio, ha ricevuto l’Orso d’oro da un’altrettanto commossa Meryl Streep, presindente di giuria della Berlinale 2016.
Il suo Fuocoammare dedicato all’Olocausto dei migranti nel mare di Lampedusa, ha colpito al cuore i giurati, il pubblico e la critica, riportando il cinema italiano, quello del reale di cui Gianfranco Rosi è ormai uno dei rappresentanti più apprezzati, alla ribalta internazionale grazie ad una tensione etica ed estetica, dimenticata da tempo.
Lo spetttore, “prigro” come l’Europa, nel guardare alla tragedia dei profughi che cadono a centinaia e centinaia, quotidianamente, per mare e per terra, percorrendo chilometri e chilometri, valicando muri sempre più alti, trova in Fuocoammare un campanello d’allarme, un richiamo alla coscienza, che, ancora una volta, può contare sul cinema che si fa politico attraverso la poesia.
Lontano dall’overdose televisiva degli sbarchi, dalle immagine di morte e disperazione digeriti davanti ai tg all’ora di cena, Gianfranco Rosi ha saputo “rappresentare l’irrapresentabile”, attraverso il pudore e l’onestà dello sguardo. Posato su una Lampedusa, addirittura inedita, invernale, piovosa, dove si muovono a passo alternato il quotidiano degli abitanti (in particolare Samuele, un ragazzino dall’occhio “pigro” e il dottor Pietro Bartolo, eroico soccorritore di migranti) e la via crucis dei profughi, i salvataggi in mare, l’accoglienza, ma anche la morte. Due mondi che procedono insieme, senza quasi mai toccarsi. Ma che fanno parte di un unico quotidiano, il nostro.
“Un grido di disperazione” – così lo stesso Rosi ha definito il suo film – che, insomma, è arrivato al cuore di una Berlinale, decisa quest’anno, nell’intezione dei suoi programmers, a farsi “luogo d’accoglienza” e simbolo di questa tragedia epocale che segna, nell’indifferenza collettiva, il nostro presente. Offrendo spazio ad altri due potenti documentari: Between Fences dell’israeliano Avi Mograbi che racconta il dramma dei rifugiati etiopi ed eritrei nei campi israeliani, dove non possono ottenere alcuno status e Ta’ang del cinese Wang Bing, sull’odissea dei rifugiati di etnia tang, in fuga dalla guerra in Birmania (leggi qui).
I giobotti di salvataggio venuti dalle acque dell’isola greca di Lesbo, utilizzati dai profughi in fuga dalle guerre in Africa e in Mediorente, contornano le colonne della Konzerthaus nell’installazione dell’artista cinese Ai Weiwei (nelle foto). E a pochi isolati, a Postdamer Platz dove si è svolto il Festival, sono stati i film “parlarne”.
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.
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