La guerra dimenticata nel Donbass è una farsa tragica. E ci riguarda da vicino

Vince il premio della regia nella sezione Un certain regard, “Donbass”, dell’ ucraino Sergei Loznitsa. Riflessione tragicomica su una delle guerre più dimenticate del nostro presente. Ma anche e soprattutto sul potere, quello di Putin ancora una volta, e quello dei media, grande fabbrica di propaganda e post-verità. Una storia che ci riguarda da vicino …

Lo cita espressamente Sergei Loznitsa quel passo dello scrittore dissidente russo, Varlam Salamov, che dice di un ulteriore passaggio della storia nel suo ripetersi, dopo la tragedia e la farsa. Un terzo momento in cui “gli stessi fatti diventano il riflesso deformato di un mondo sotterraneo, davanti a uno specchio convesso. L’intrigo è improbabile e allo stesso tempo realista ed esiste veramente vicino a noi”.

Benvenuti in Donbass dove tutto questo è realtà. Quella regione dell’est dell’Ucraina dove negli ultimi anni si sta consumando una delle guerre più dimenticate del nostro presente. Da una parte il governo di ultradestra che guarda all’Europa, dall’altra i separatisti filo Putin, in formazioni paramilitari. E in mezzo i civili massacrati dal fuoco di entrambi i fronti.

Dopo aver raccontato le piazze di Kiev in rivolta contro il regime filo russo di Yanukovich nel 2003 (Maidan, bellissimo documentario, presentato a Cannes), Sergei Loznitsa torna nella sua terra, l’Ucraina, con questo film che, ancora una volta, è un potente atto d’accusa contro il Kremlino.

Proprio qui a Cannes, l’anno scorso, col Dostoïevskij di Une femme douce, aveva tentato il concorso sempre con una storia incentrata sulla violenza del potere nella Russia di Putin, tra realismo e allegoria. Con Donbass prosegue. Affina le corde tragicomiche – anche se eccede nel grottesco – e ci regala un film sorprendente. Non solo nella volontà di denunciare un conflitto nel cuore dell’Europa, totalmente ignorato, ma di provare a raccontare, tra sorriso e dramma, quel mondo deformato e sotterraneo – per dirla con Salamov – nato d’allesplosione dell’Urss.

È una “guerra ibrida” quella del Donbass. Dove traffici e saccheggi quasi pesano più delle granate. Dove imboscare i viveri dell’ospedale è la norma. Dove le milizie “espropriano” auto di lusso e cellulari e la stessa popolazione, comprese vecchiette e casalinghe, sono pronte a linciare il “nemico” indifeso, messo alla gogna per strada.

Eppure c’è chi questa guerra la scambia per pace, come l’odio con l’amore e la propaganda con la verità. Loznitsa, del resto, grande “manipolatore” di repertori, conosce bene il potere delle immagini. Nell’era dei social e dei selfie capaci di manipolare qualunque realtà, pure la drammatica memoria dell’Olocausto (vedi il suo magnifico, Austerlitz), il regista ci mostra il punto di non ritorno di quella che da tempo chiamano post-verità.

In un caravan a mo’ di camerino, sono al trucco un gruppo di civili destinati dai militari a fare da testimoni finti all’ennesima azione di guerra in città. Appena si accendono le telecamere delle tv, eccoli lì pronti a piangere le vittime come grandi attori. Questo è l’inizio del film. A chiudere la scena si ripete, ma stavolta i testimoni diventano le vittime: il militare di prima li fredda uno ad uno dentro al caravan. A “piangerli” davanti ad altre telecamere, mentre trascinano fuori i loro corpi, saranno nuovi “testimoni”. I titoli di testa scorrono via sulla stessa inquadratura gelando lo spettatore. Davvero è una storia che non ci riguarda?