La tragedia di un gioielliere (e dell’Occidente) ridicolo. È “Diamanti grezzi” su Netflix
Su Netflix (dal 31 gennaio), “Diamanti grezzi” (Uncut Gems), thriller con Adam Sandler – l’ex comico del “Saturday Night Live” – scritto e diretto dai fratelli Josh e Benny Safdie (Good Time). La parabola autodistruttiva di Howard, gioielliere e scommettitore che mette le mani su un prezioso opale. Una cruda (e ironica) parabola sull’assurdità del nostro tempo, attraverso un protagonista, e un interprete, che restituiscono la tragedia grottesca dell’Occidente contemporaneo…
«La tua faccia è stupida»: così risponde, lapidaria, la moglie Dinah (Idina Menzel) a Howard Ratner (Adam Sandler), gioielliere ebreo newyorchese, protagonista di Diamanti grezzi (Uncut gems, su Netflix), quando l’uomo chiede all’altra di tornare insieme.
Perché Howard, ambizioso quanto cialtrone, scommettitore ai limiti della ludopatia e tallonato da ogni sorta di creditore, non è credibile. Né come marito, né come padre, né come affarista. Tantomeno come uomo. E in questo deficit di credibilità, riassunto nel volto-maschera (occhiali spessi, barba, sorriso dentato fasullo, posticcio) sta non solo il suo vero dramma, ma anche la chiave della performance di Sandler.
Con la maschera di Howard, infatti, l’ex comico del Saturday Night Live sembra parlarci anche di se stesso. Della sua capacità di interpretare personaggi incisivi in opere di spessore e della sua condanna, malgrado ciò, a non essere (ancora) preso sul serio unanimemente: forse per la colpa di aver costruito gran parte del suo successo di pubblico su commedie dall’incasso facile che lo hanno reso collezionista di Razzie Awards. L’Academy, non a caso, ha discutibilmente snobbato Sandler (e il film) dalle nomination agli ultimi Oscar.
La forza di Diamanti grezzi risiede, allora, nell’incontro tra questo (bravo) attore “vittima” di se stesso e i fratelli Josh e Benny Safdie, registi, montatori e sceneggiatori (con Ronald Bronstein) di questo nuovo capitolo del loro cinema indipendente aspro e crudo, fatto di personaggi prigionieri delle proprie derive autodistruttive non meno che di una società gelida e atomizzata. Emblematico il precedente titolo, Good Time (2017), dove Robert Pattinson (il prossimo Batman) vorrebbe aiutare il fratello mentalmente disabile, ma sbaglia e rovina tutto e tutti, a cominciare dalla rapina dell’incipit.
Stavolta però il thriller sul gioielliere-scommettitore indebitato rimanda all’intero Occidente, perso nelle derive del capitalismo globale e, come Howard, in crisi strutturale di credibilità. Ce lo suggerisce già la potente sequenza d’apertura, dove il “diamante grezzo” al centro della vicenda è estratto in una miniera etiope, mentre uno dei tanti lavoratori-schiavi locali viene portato via con la gamba maciullata.
Un effetto visivo ci porta quindi (emblematicamente) dalla struttura interna della gemma al colon del protagonista, nelle viscere dell’altro capo del mondo: dove la corsa ansiosa e grottesca al diamante (e, in generale, a una ricchezza più virtuale che effettiva) da parte di Howard e degli altri personaggi (come il cestista Kevin Garnett – nella parte di se stesso – convinto che la pietra lo faccia vincere a basket) svela il vuoto di una cultura individualista al capolinea.
Nel suo frenetico movimento tra creditori e debitori, nella sua parlantina convulsa, nel brivido (auto)erotico della scommessa da cui è dipendente, Howard, parodia in piccolissimo del protagonista di The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (qui produttore esecutivo), è il rappresentante tipico di questo teatro dell’assurdo dove la tragedia è sempre sul filo della farsa.
Malgrado il pathos e il ritmo adrenalinico del racconto, infatti, c’è sempre qualcosa di (acidamente) comico nei guai del gioielliere (e nel microcosmo che lo circonda): quando viene spogliato dai creditori e rinchiuso nudo nel bagagliaio della sua auto (mentre a due passi c’è la recita scolastica della figlia). O quando la sua commessa-amante (Julia Fox), dopo il pianto dell’uomo all’apice della crisi, non trova di meglio per consolarlo che mostrargli il tatuaggio col suo nome impresso su una natica.
Si resta sempre bloccati tra il dramma e la farsa, come tra le due (difettose) porte elettroniche della gioielleria di Howard (luogo fondamentale del film). Impossibile prendere davvero seriamente la catastrofe del suo (e del nostro) mondo. La tragedia che viviamo è (anche, soprattutto) questa.
Emanuele Bucci
Libero scrittore, autore del romanzo "I Peccatori" (2015), divulgatore di cinema, letteratura e altra creatività.
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