Classici amati-odiati. Alle origini del “regno” oscuro di Lars von Trier (su Prime Video)
La prima stagione della miniserie, Il regno di Lars von Trier del 1994 sulla piattaforma Prime Video di Amazon. Un ospedale maledetto che racchiude già tutto l’autore danese: la provocazione, il disturbo, lo slittamento dal previsto, la consapevolezza che il cinema non è sempre un luogo comodo e rassicurante. Rivederlo oggi al tempo del buonismo obbligatorio è un respiro a pieni polmoni …
Si può stare senza vedere Il regno di Lars von Trier? Per René Prédal certamente sì: “Le discutibili sintesi culturali del danese Lars von Trier e il suo espressionismo rivisitato alla luce di un postmodernismo tecnologico” (Cinema: cent’anni di storia, Baldini e Castoldi). Per Emanuela Martini assolutamente no: “Il regno è il prodotto più innovativo e appassionante che si è visto a Venezia, un ribaltamento intelligente della stupidità tradizionale della serie televisiva” (Cineforum n. 337, settembre 1994).
Riget viene girato come miniserie per la televisione danese nel ’94. È un esperimento di Lars von Trier insieme al regista Morten Arnfred, in quattro puntate che verranno trasmesse anche come unico film, a cui farà seguito una seconda stagione nel 1997.
Come nasce l’idea? Risponde von Trier: “Be’, c’era quella merda di società di produzione, la Zentropa, e bisognava produrre film per farla funzionare”. Alla base c’è una trovata semplice: è la storia del Regno, un ospedale infestato nella Danimarca contemporanea. In principio una medium viene ricoverata nell’istituto e inizia a sentire il pianto di una bambina, che proviene dall’ascensore. L’anziana donna cerca di scoprire la verità sul passato della bimba.
Nel palazzo si muove intanto una varia umanità: il primario egotico, che prova a cancellare il verbale di un intervento che ha causato danni cerebrali a una ragazza; il medico più giovane, che viene a conoscenza del fatto e apre un’aspra contesa con il primo. E poi i singoli pazienti, la girandola di amanti, le apparizioni dei bambini.
Il radicale antibuonismo trieriano è già tutto in filigrana: basti guardare al dottore che lancia il paradossale programma “Aria del mattino”, con l’obiettivo di portare aria nuova nel reparto, poi risolto nella distribuzione di adesivi. Ecco la cinica parodia dei rapporti di lavoro, della loro assurdità intrinseca, che tornerà decenni dopo ne Il grande capo. Un medico installa un sarcoma epatico su se stesso, pur di continuare la ricerca scientifica; i sotterranei dell’ospedale sono un tripudio di fascicoli scomparsi e nascosti. La trama avanza tra irregolarità e insabbiamento, affidandosi non al fatto ma alla suggestione, e ottenendo così un crescendo che esplode nell’ultima puntata, intitolata – nomen omen – I morti viventi.
È un Lars von Trier alle soglie del Dogma, quello che gira Il regno. Se il manifesto programmatico del Dogma 95 viene stilato con Thomas Vinterberg nell’anno successivo, qui il danese di fatto è già dogmatico: gira con camera a mano, costruisce inquadrature sghembe e oblique, usa la handycam per perlustrare i corridoi dell’ospedale attraverso soffocanti piani sequenza. Sceglie punti di osservazione angolari e di sbieco: come fosse una “soggettiva fantasma”, ovvero un occhio che guarda da posizione impossibile, a suggerire la presenza degli spiriti che infestano Il Regno.
Avvolto in un côté visivo giallognolo, malato, nella luce infetta delle corsie o nei bagliori delle candele, il racconto costruisce un’atmosfera incubale che, manovrando luci, suoni e colori, ottiene un’atmosfera di angoscia costante. È come se qualcosa stesse per accadere, anche nei momenti più tradizionali e parlati: così la possibilità di uno spettro – o di un consesso di spettri – si forma davanti agli occhi e diviene gradualmente plausibile.
D’altronde per il danese l’horror è sempre stato genere d’elezione. Già qui lavora sull’archetipo del luogo maledetto, edificato su fondamenta sovrannaturali: per ricordarlo sempre ogni puntata si apre sulla scena dei tintori, che lavano i panni in un fiume come una sorta di Stige, immersi nella nebbia, in un’epoca pre-moderna che non apparteneva alla scienza, rendendo quindi paradossale la costruzione dell’ospedale.
Ed è proprio il conflitto tra razionale e fantastico che innerva la serie: la medicina, rappresentata dai dottori e in particolare dalla figura di Helmer, contro lo spiritismo incarnato nella medium. I due piani si contaminano continuamente l’uno con l’altro: i dottori si riuniscono in una loggia, ossia una confraternita paradossale che come rito di ingresso prevede – comicamente – il taglio del limone in bocca a colpi di spada. Il rito della Loggia è come il Dogma 95: un nonsenso, una provocazione, l’imposizione di una regola per smascherare l’assurdità di tutte le regole. Così come ogni loggia incontra, omaggia e oltraggia quella di Twin Peaks.
Von Trier sfrutta dunque la commissione televisiva, ma si tratta di von Trier puro: un’opera sfacciata, disturbante e malsana per ricordare che il cinema non può essere solo comodo e consolatorio, ma è anche negativo. Sfida l’irrappresentabile e l’osceno, letteralmente, mostra una giovane resa disabile da un intervento sbagliato, una “idiota” prima di Idioti, e usa i ragazzi down nelle cucine in funzione corifea per commentare l’intreccio.
Il regista entra perfino in scena, sui titoli di coda delle puntate, sondando lo spettatore e chiedendo com’è andata la visione. Il previsto è lontano, lo spiazzamento costante, il disturbo consapevole: rivederlo oggi al tempo del buonismo obbligatorio è un respiro a pieni polmoni. Il parto finale è delirante: il seguito lo sarà ancora di più. Ma sempre con ironia. La prima stagione de Il regno è disponibile sulla piattaforma Amazon Prime.
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