Addio Peter Brook, guru del teatro del XX secolo. Che ha rivoluzionato anche il cinema

È stato uno dei registi teatrali più influenti del XX secolo, quasi un mistico e spesso accostato a Konstantin Stanislavskij. Ha reinventato l’arte riducendola agli elementi più elementari e potenti del dramma, accompagnando i suoi attori – delle più varie etnie e nazionalità – in odissee africane dove improvvisare in mezzo al nulla perché, diceva, “un uomo cammina in uno spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda. Questo è tutto ciò che serve per un atto di teatro”.

 

È morto a Parigi il 2 luglio Peter Brook. Aveva 97 anni e una carriera da grande sperimentatore, innovatore e rivoluzionario che ha tenuto viva sfidando il suo pubblico fino a 90 anni. Nato a Londra (il 21 mrzo 1925) da una famiglia di scienziati ebrei immigrati dalla Lettonia, Brook ha vissuto a Parigi dall’inizio degli anni Settanta, dove ha fondato il Centro Internazionale di Ricerca Teatrale in una vecchia sala da musica chiamata Bouffes du Nord.

Da lì sono usciti i suoi infiniti sucessi internazionali a cominciare dal suo capolavoro del 1985 Il Mahabharata, una versione di nove ore dell’epopea indù (c’è anche Vittorio Mezzogiorno tra gli interpreti), diventata anche un film culto.  L’opera di Peter Brook, infatti, è inscritta nel contesto delle neoavanguardie del secondo dopoguerra dove non ci sono confini tra le arti: cinema, teatro e televisione interagiscono e dialogano tra di loro.

Giovanissimo Peter comincia proprio col cinema, mentre sta finendo i suoi studi a Oxford. Sentimental journey (1943) è il suo primo film, opera priva di dialoghi con attori non professionisti (caratteristica che porterà anche a teatro) reclutati nei pub.  Contemporaneamente inizia l’intensa attività teatrale che lo porterà nei Sessanta alla direzione della Royal Shakespeare Company. Da subito l’allestimento di Sogno di una notte di mezza estate in una palestra a cubi bianchi rappresenterà un punto di svolta nel teatro mondiale.

Eppure l’attività cinematografica di Brook non sarà mai secondaria rispetto a quella della scena, anche se quest’ultima ne sarà fonte d’ispirazione e della sua fama. Come per il teatro anche il cinema è per Brook la possibilità di presentare la vita nel suo accadere.

Ecco dunque che dopo Il masnadiero (1953), trasposizione cinematografica della pièce di J. Gay, firma Moderato cantabile ‒ Storia di uno strano amore (1960), tratto da un romanzo di Marguerite Duras: la macchina da presa è fissa di fronte ai due protagonisti, Jeanne Moreau e Jean-Paul Belmondo, per “rubare” le loro emozioni e il loro vissuto, lasciando che le cose accadano.

Grande eco avrà il film successivo: Il signore delle mosche (1963) girato su un’isola a sud di Puerto Rico, con un cast formato solo da adolescenti di nazionalità diverse. È l’adattamento del romanzo di William Golding che racconta di scolari abbandonati su un’isola che si trasformano in selvaggi, mostrando i meccanismi crudeli che stanno alla base delle istituzioni: diventerà subito un classico. Mentre il teatro della crudeltà di Antonin Artaud farà da traccia ad uno dei suoi primi grandi successi, il Marat-Sade che nel 1964 ipnotizzerà il pubblico dei palcoscenici di Londra e New York, e poi nel 1966 quello dei cinema di tutto il mondo con una versione per il grande schermo firmata dallo stesso Peter Brook. Qui rende esplicito il suo impegno politico e sociale mettendo in contrapposizione il messaggio egualitario del rivoluzionario Marat e quello elitario del Marchese De Sade.

Un impegno che si confermerà col successivo Tell me lies (1968), girato anch’esso sulla falsariga di una messa in scena teatrale di due anni prima, US di Denis Cannan: attraverso l’assemblaggio di immagini di repertorio, interviste con scrittori, studenti, l’autore denuncia le responsabilità storiche del governo statunitense nella guerra in Vietnam.

Nel 1970 segue un imponente adattamento televisivo del dramma schakespiriano Re Lear (furono ricostruiti castelli e strade ad hoc) e in seguito Brook si dedica al documentario antropologico, raccontando i viaggi compiuti in Iran (Orghast, 1971) e in Africa con la sua compagnia teatrale, di cui fa parte anche Helen Mirren. Nel 1978 torna al cinema di finzione con Incontri con uomini notevoli tratto dal libro del filosofo mistico George Gurdjieff, le cui danze sacre Brook ha eseguito quotidianamente per anni come apprendistato spirituale

Ma è soprattutto con la formazione del Centre International de Création Théâtrale, con sede a Parigi che la sua attività cinematografica si fonde ancor di più con col suo teatro. Con La tragédie de Carmen (1983) filma all’interno del teatro Bouffes du Nord tre versioni cinematografiche differenti dello stesso spettacolo, una per ciascuna delle tre interpreti della Carmen.

Nel 1989, poi, arriva il film culto, Il Mahabharata dall’omonimo spettacolo fiume ispirato all’epica epopea scritta in sanscrito. Una versione di sei ore per la televisione e un’altra di circa la metà per il cinema (nelle foto), frutto della collaborazione con Jean-Claude Carrière che ha offerto una rappresentazione incantata, quasi un sogno collettivo, di quel monumento letterario dell’antica cultura indiana, lungo ben quindici volte la Bibbia.

“Peter Brook ha lavorato soprattutto per conservare la grandezza e insieme l’immediatezza del mito – scrive Ugo Volli -, per salvarne insieme la dimensione umana e la meraviglia, senza tentazioni hollywoodiane di effetti speciali, né tentativi di introspezione psicologica”. La semplicità dell’arte, insomma, che annulla la finzione davanti alla rivelazione di una verità esistenziale profonda. Con la quale Brook ha saputo incantare il mondo intero.