Gli eroi senza macchia non esistono. William Friedkin ultimo atto (da Pulitzer) alla Mostra

Passato fuori concorso a Venezia 80 “The Caine Mutiny Court-Martial” film testatamento di William Friedkin scomparso lo scorso agosto. Dall’omonimo romanzo Premio Pulitzer di Herman Wouk, già portato più volte a teatro e al cinema da Edward Dmytryk nella storica versione con Humphrey Bogart, il film è ostinatamente coerente con tutto il suo cinema, ossia la sua indagine sull’esile confine tra il bene e il male, tra i buoni e i cattivi che non sono quasi mai eticamente in asse con la morale comune.

È paradossale e intrigante che The Caine Mutiny Court-Martial, il film che William Friedkin ci ha lasciato come suo atto finale sia formalmente l’esatto opposto di suoi capolavori quali Vivere e morire a Los Angeles o Il braccio violento della legge: tanto per cominciare, si svolge tutto nell’aula di un tribunale militare, da cui non usciamo se non negli ultimissimi minuti, dove domina la parola che scandisce il ritmo ma non c’è quel tipo di azione, nessuna sparatoria, niente inseguimenti folli e fantastici come quello sulle strade di Brooklyn entrato nella storia (e che Friedkin dovette filmare in prima persona perché tutti i cameraman avevano figli e non volevano rischiare la vita).

E però anche quest’ultimo film del regista americano, presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia 80 e prossimamente su Paramount+, un legal drama arrivato ben 12 anni dopo il precedente Killer Joe, è ostinatamente coerente con tutto il suo cinema: che si tratti di poliziotti disinvolti o di capitani di Marina che vedono complotti anche dietro un pezzo di formaggio, al centro c’è da sempre la sua indagine sull’esile confine tra il bene e il male, tra i buoni e i cattivi che non sono quasi mai eticamente in asse con la morale comune. Gli eroi senza macchia non esistono, sono un trucco della retorica a cui non conviene credere.

Il romanzo Premio Pulitzer scritto nel 1951 da Herman Wouk e portato in teatro più volte, a partire dalla rappresentazione del 1954 con Henry Fonda e un cast stellare, nel corso degli anni è passata attraverso molte altre produzioni teatrali, e televisive e, naturalmente, una versione per il grande schermo diretta da Edward Dmytryk con Humphrey Bogart nei panni del Comandante Queeg, Van Johnson in quelli dell’imputato Steve Maryk e Jose Ferrer nella parte dell’avvocato Greenwald. Il film che ottenne sette nomination agli Oscar del 1954, compresa quella per il miglior film, utilizzava il romanzo di Wouk come materiale di partenza svolgendo però gran parte dell’azione a bordo del Caine per seguire didascalicamente lo svolgersi degli eventi.

Affascinato dai dubbi che il testo solleva, Friedkin riprende filologicamente l’opera teatrale scegliendo di mettere in scena un kammerspiel che rende gli eventi e la tensione attraverso la voce di coloro che sono chiamati a testimoniare, ma ancora di più attraverso l’osservazione entomologica del linguaggio del corpo.

Sono un paio le licenze che il regista si prende, in quanto anche autore dell’adattamento: la prima sta nel passaggio della vicenda dalla Seconda guerra mondiale dell’originale alla Guerra del Golfo e la seconda, più significativa, nell’aver cambiato il sesso di un personaggio importante, il procuratore John Challee che sostiene l’accusa, in una militare donna interpretata con convinzione e determinazione da una brava Monica Raymund.

Il film non ci mostra il prima e il dopo ma veniamo a conoscenza di tutte le informazioni necessarie esclusivamente seguendo quanto accade in un tribunale della Marina militare americana durante il procedimento della Corte Marziale contro l’ufficiale in seconda Steve Maryk (Jake Lacy) reo di aver rimosso dal comando del cacciamine Caine il Comandante Queeg perché ritenuto mentalmente instabile nel momento in cui un violento tifone metteva a rischio la nave e l’equipaggio.

Queeg è uno strepitoso Kiefer Sutherland involontariamente comico nel suo delirio narcisista e mitomane. Maryk è difeso senza molto entusiasmo (poi si capirà perché) dall’avvocato Barney Greenwald, interpretato dall’ottimo Jason Clarke in una delle sue migliori performance; il giudice è l’attore afroamericano Lance Reddick, scomparso lo scorso marzo e a cui Friedkin ha dedicato il film.

Più il processo avanza, più la famosa linea che separa giusto e sbagliato si sposta, si sfuma, segue l’andamento dei dialoghi, delle testimonianze, dei richiami della corte, sempre più concitato, come in una danza nervosa dal finale prevedibile ma non scontato. Se Dmytrick (vittima del maccartismo ma poi eretico e poco fedele alla linea) non nascondeva le sue simpatie patriottiche per il personaggio di Queeg, Friedkin è più sottile, più interessato a smascherare alla fine un cinismo tutto contemporaneo che mette l’ambizione e il successo davanti a tutto; e per questo, alla fine, appurare se fu o meno un ammutinamento appare quasi secondario nel film.

La verità, dice Friedkin, è talmente soggettiva che alla fine nessuno ha ragione, più probabilmente tutti hanno torto e, per questo sceglie intenzionalmente di mantenere la questione del giusto o sbagliato la più ambigua possibile.
E dunque il punto attorno al quale sembra ruotare il film è: abbiamo, come individui, una morale che ci aiuti a prendere le nostre decisioni e che ci guidi, esattamente come il Caine, fuori dal tifone?

Forte di un curriculum professionale da far tremare i polsi, l’irriducibile William Friedkin alla bella età di 87 anni ha diretto, con l’amichevole sostegno di Guillermo Del Toro che gli ha fatto da aiuto regista, il suo ultimo film dalla sedia a rotelle per i problemi di salute che lo hanno portato alla morte lo scorso 7 agosto.

L’impossibilità di tracciare un confine netto tra giusto e sbagliato è un buon viatico per questa edizione di Venezia e per il cinema “politico” in generale; è emozionante notare come nel cartellone di Venezia80 Friedkin trovi uno stretto collegamento con un altro maestro che non c’è più, Joseph Losey, nella sezione Venezia Classici con la versione restaurata di Per il re e per la patria. Anche in questo film del 1964 tutta l’azione gira attorno al processo per diserzione del soldato Hamp (Tom Courtenay, che per questo ruolo vinse la Coppa Volpi proprio a Venezia quell’anno), difeso da un riluttante Dirk Bogarde, neppure in un’aula di tribunale ma nel fango e tra i ratti sotto una pioggia incessante nelle trincee dell’esercito britannico a Passchendaele, Fiandre Occidentali, nel 1917 teatro di una delle più atroci carneficine della Prima guerra mondiale. Nel film sembra quasi di sentire l’odore dei cadaveri in putrefazione, del piscio e dei topi, ma più insopportabile di tutto è la riduzione di ogni cosa e di ogni gesto alla disumanizzante logica militare guerrafondaia.

In entrambi i film la scena si svolge in luoghi definiti, che sia l’aula del processo all’ufficiale Maryk o il putrido buco nel terreno dove marcisce il marmittone Hamp, e i pochi spostamenti nella posizione della macchina da presa sono un espediente che nel racconto amplifica l’effetto teatrale e insieme drammatico. In questa scelta la guerra non viene mostrata ma evocata o sentita in lontananza. Losey vuole rappresentare l’insopportabile e inevitabile orrore di ciò che gli uomini possono fare gli uni agli altri, Friedkin più sottilmente ne mostra i tortuosi e non meno perfidi percorsi, ma alla fine entrambi hanno un unico intento: smascherare e condannare il cinismo che muove gli apparati così come avvelena le azioni dei singoli.