Tanti auguri Cecilia, magnifica novantenne

La signora del documentario. La prima regista italiana ad aver raccontato il lavoro in fabbrica. Uno degli “sguardi” più curiosi, originali, coraggiosi e anticonformisti del cinema italiano. E ancora fotografa di talento (fino al 10 settembre le sue foto in mostra a Roma), saggista e organizzatrice di cinecircoli. Cecilia Mangini – nata a il 31 luglio 1927 a Mola di Bari – compie novant’anni. Gli auguri di Bookciak Magazine, di cui è amica e collaboratrice, con un’intervista di qualche tempo fa (uscita per l’Unità nel 2009)…

Cecilia Mangini è stata la prima donna che, nell’Italia del dopoguerra, ha raccontato la nostra realtà con la cinepresa. E i suoi documentari, spesso realizzati insieme al compagno di una vita, Lino Del Fra, hanno conosciuto la censura, i premi internazionali ma, soprattutto, hanno scritto la storia di un genere che, finalmente sta ritrovando una sua vitalità.

Ed è proprio a riconoscimento di questo impegno lungo una vita che, a Firenze, sarà consegnata a Cecilia Mangini la medaglia del Presidente della Repubblica nell’ambito della cinquantesima edizione del Festival dei Popoli, la prima rassegna di cinema documentario italiano, gemellato quest’anno col Premio Solinas.

Nata a Mola di Bari nel 1927, Cecilia è una splendida signora dal piglio «combattente», impegnata ancora oggi in dibattiti e rassegne (quelle che organizza col circolo Gianni Bosio di Roma, per esempio), convinta della necessità di tenere alta la bandiera del «documentario come strumento di speranza – dice – per far sì che gli italiani tornino a pensare al Paese in modo responsabile e a partecipare alla vita sociale».

Senza avere come «unico obiettivo il successo – prosegue – e l’essere conosciuti, che oggi sembrano i soli interessi inseguiti dalle persone. Non si fa nulla che esuli dall’io. Noi, invece, ci sentivamo parte di un gruppo». E che gruppo: Vittorio De Seta, Gianfranco Mingozzi, Giuseppe Ferrara, Luigi Di Gianni, Lino Del Fra, Florestano Vancini, Riccardo Napolitano, il fratello di Giorgio. E ancora Zavattini e poi Pasolini che per Cecilia ha scritto i testi dei suoi primi documentari Ignoti alla città e La canta delle marane, ispirati proprio alla narrativa pasoliniana dei ragazzi di vita, finiti per questo nelle maglie della censura.

«Venivamo tutti fuori dalla tragedia del fascismo – prosegue – in cui da bambini avevamo creduto ciecamente. Con la guerra c’era crollato tutto addosso e il Neorealismo ci ridava la speranza, la voglia di opporsi. Gli anni Cinquanta erano pesantissimi, ma almeno non c’erano ambiguità. Era impossibile non fare una scelta di campo. Io non sono mai stata iscritta al Pci ma ero certa delle battaglie della sinistra. Insomma, non sono di quelli che hanno nostalgia dei democristiani. Li ho sempre visti come dei talebani, con a capo Andreotti».

Erano gli anni di Scelba, ricorda Cecilia. E loro erano il «culturame». Dunque poteva persino capitare di subire una carica della celere per impedire la proiezione dei «sovversivi» documentari di Jori Ivens. Come le capitò a Firenze – ci si trasferì con la famiglia nel ’33 – nel suo cineclub Controcampo, dove appena ventenne aveva già cominciato a lavorare, nel momento della fioritura dei circoli del cinema. «Quegli straordinari luoghi di pensiero critico, dove si faceva cultura – spiega – mostrando i film di Renoir, Chaplin, Kiton, Pudovkin, Ejzenstejn, Stroheim che sotto il fascismo c’erano stati negati».

Erano gli anni in cui, prosegue Cecilia, «le donne dovevano essere solo oche giulive, non potevano avere opinioni proprie, non potevano discutere di libri e dovevano adorare i maschi». Figurarsi per una come lei che già scriveva sulla rivista di Aristarco Cinema nuovo, che si nutriva dei testi di Ernesto De Martino (da lì nasce Stendalì sui canti funebri delle donne pugliesi), Calvino, Pratolini (alla sua Firenze è dedicato il suo secondo documentario) che, arrivata a Roma chiamata da Callisto Cosulich per occuparsi dei circoli del cinema, intreccia il suo lavoro con quello di Pasolini e Zavattini.

Perché è convinta «dell’importanza di un cinema di denuncia. Raccontare la realtà per spingere a cambiarla – racconta Cecilia -. L’Italia degli anni 50 e 60 è profondamente arretrata e vive ancora dei miti peggiori del fascismo. A cominciare da quello che vuole la donna “madre di sterminata prole”».

Da donna, infatti, Cecilia Mangini sarà anche la prima a portare al cinema i temi che di lì a poco affronterà il femminismo. A 37 anni, nel 64, vince il festival di Lipsia col suo storico Essere donne, documentario manifesto sulla condizione femminile in fabbrica, nelle campagne, tra le raccoglitrici di olive, le tabacchine e le lavoranti a domicilio. Insomma, l’altra faccia del boom economico.

Glielo commissionò Luciana Castellina, per una campagna elettorale del Pci, ricorda. E fu la prima ad entrare in fabbrica per mostrare il massacrante lavoro della catena di montaggio. «Mi intrufolai – racconta – dicendo che ero della Rai. Non mi fecero problemi perché erano convinti che avrei fatto uno dei tanti servizi che glorificavano il boom economico». Alla sua uscita il film fece un grande scalpore. Non fu mai trasmesso dalla Rai, ma circolò grazie ai cosiddetti «circuiti alternativi» (Arci, Case del popolo, sezioni di partito) che allora funzionavano benissimo. E ancora oggi, conclude Cecilia, «Essere donne continua la sua marcia inarrestabile, a festival, rassegne, per l’8 marzo, il 25 aprile, il primo maggio». E lei non manca mai.

di seguito gli articoli di Cecilia Mangini per Bookciak Magazine

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