Addio Milan Kundera l’immortale. Il musicista del romanzo che amava (riamato) il cinema

È morto l’11 luglio Milan Kundera. Il grande scrittore ceco aveva 94 anni ed è scomparso nella Parigi in cui si era rifugiato dopo l’esilio forzato. Una vita nel segno della letteratura, esplorata con uno stile inimitabile e una curiosità mai doma verso la storia, la musica, ma anche il cinema. Un punto di vista fondamentale, il suo, sul dopoguerra dell’Europa orientale, sul comunismo e sulle storture del potere politico. E forse anche il più grande tra i premi Nobel mancati …

«Es muss sein», che vuol dire così dev’essere. È la frase che chiude l’ultimo movimento dell’ultimo quartetto per archi di Beethoven ed è anche una delle tante insenature a cui ha attinto la penna di Milan Kundera, morto l’11 luglio a 94 anni. Nel suo romanzo più famoso, quello che lo fece diventare un’icona mondiale, L’insostenibile leggerezza dell’essere, la frase di Beethoven veniva rincorsa e sviscerata fino ad arrivare a uno dei grandi interrogativi umani: la nostra vita doveva andare così, doveva essere così? Muss es sein?

L’inimitabile stile di Kundera si annidava precisamente in questo procedere a valanga. Scegliere un elemento, che fosse un fatto storico, una citazione o anche una riflessione autobiografica, e trattarlo come un seme, fino a farne germogliare il romanzo. Ogni storia di Kundera, ogni suo testo, assomiglia a un piccolo albero a tutti gli effetti, in cui la trama è solo il tronco, ma i frutti veri, succosi e indimenticabili, pendono dai rami e cadono, spesso, lontano dalla storia (ma non dalle sue radici).

Non è difficile riconoscere in questo andamento il suo modello musicale. In una sinfonia, ma anche in un semplice pezzo d’esercizio o in una colonna sonora, il risultato complessivo nasce dall’esplorazione di melodie diverse. Ogni composizione è una raccolta di divagazioni, che si sviluppano nutrendosi l’una dell’altra, fino a stabilire quale debba prevalere. Fu, probabilmente, la soluzione che il giovane autore trovò per accettare di abbandonare le proprie ambizioni musicali e dedicarsi alla scrittura.

Figlio di un noto musicologo cecoslovacco, Kundera non poté che rivolgersi allo spartito come primo interesse. Sognava di diventare pianista, amava Dvořák e Beethoven. Forse di nessuno come lui si potrebbe costruire un concerto partendo dalle suggestioni musicali che popolano copiose ogni suo romanzo – Radio Tre, a suo tempo, lo fece, ispirandosi al suo libro più noto -. Dalla musica passò invece a un altro dei suoi grandi amori, il cinema, diplomandosi alla Scuola di Cinema di Praga, dove poi avrebbe anche insegnato. Al grande schermo rimase sempre legato, specie a Fellini, che a più riprese definì «la vetta più alta dell’arte moderna» (alcuni anni fa Stefano Godano, amico dello scrittore e del regista, aveva esplorato questo legame impossibile in un libro: Kundera e Fellini).

Negli anni dello scontro tra il regista riminese e Berlusconi, lo scrittore ceco prendeva coscienza della rivoluzione copernicana che stava portando il cinema a essere il «principale agente del rimbecillimento e di indiscrezione planetaria». Lo scontro tra potere (allora “solo” economico, ma che ben presto avrebbe allungato le mani anche sulla politica) e l’indipendenza artistica, d’altronde, è stato il leit motiv di tutta la vita di Kundera. Già nel 1950, ad appena 21 anni, fu espulso dal Partito Comunista cecoslovacco, per poi venire riammesso ed espulso nuovamente, stavolta nel 1970, quando le sue posizioni a favore della Primavera di Praga lo resero un avversario del regime di Husák.

Uno dei suoi romanzi più straordinari, Il libro del riso e dell’oblio, tra gli esempi più evidenti della sua innata capacità di comporre un bel titolo, gli causò la perdita della cittadinanza. Era il 1978, da tre anni Kundera si era rifugiato in Francia, a Parigi, dov’è sempre rimasto assieme alla compagna di una vita, Vera Hrabanková. L’interessamento dell’allora presidente Mitterand gli fece ottenere la cittadinanza, inaugurando così definitivamente il secondo troncone della sua vita letteraria, nonché il più celebre, quello francese. I documenti del paese natio gli furono poi riconsegnati solo nel 2019, a seguito di un lungo processo di disgelo, il cui punto cruciale fu l’autorizzazione alla traduzione ceca del suo ultimo romanzo, La festa dell’insignificanza.

La condizione di esiliato fu la sorgente da cui ebbe origine la sua fama. L’insostenibile leggerezza dell’essere, uscito nel 1984 e prontamente vietato, come tutte le sue opere, in Cecoslovacchia, fu un’epifania generale proprio per il suo lucido e netto giudizio sull’esperienza comunista nell’Europa orientale. La Primavera di Praga era sì lo sfondo generale della trama, ma non il suo cuore. Il magma originario rimanevano i personaggi e ciò che incarnavano: la dialettica tra il pensare la vita come un’avventura effimera o come un rebus perenne di cui va scoperta la logica, ossia tra la leggerezza e la pesantezza. Philip Kaufman fu coraggioso a trarne un film, nel 1988, e se non regge il confronto col romanzo è solo perché lo stile di Kundera non è fissabile in un mezzo diverso da quello letterario (con, forse, l’unica eccezione della musica).

All’improvviso culto occidentale si oppose con l’elusione, noncurante, forse, della legge per cui l’irreprensibilità irrobustisce gli onori. Premi e riconoscimenti gli arrivarono a ondate costanti, dalla Francia in particolare, orgogliosa di potersi fregiare della propria accoglienza. Legion d’onore, premio dell’Académie, persino l’ingresso nella Bibliothèque de la Pléiade, di norma aperta solo a chi ha avuto il buongusto di morire. Tra tutti, però, il più importante rimase sempre un miraggio dei bookmaker. Il Nobel fu richiesto a gran voce e non arrivò mai, lasciando ampio margine agli appassionati dietrologhi dell’Accademia Svedese.

Come tutti i grandi scrittori, in ogni caso, i premi furono e saranno sempre l’effetto collaterale di un’opera omnia straordinaria, in Italia edita in toto da Adelphi. La buona letteratura si riconosce perché è in grado di portare a chi legge uno sguardo non necessariamente nuovo, ma sempre in qualche modo rivelatore su un mondo che, volenti o nolenti, conosciamo bene. Kundera è stato questo, sempre, e continuerà a esserlo. Se si vuole cercarne un esempio basteranno le parole di Calvino dalle colonne di Repubblica, pronto ad aprire un dibattito con lui su due concetti fondamentali dell’esistenza umana: Dio e la merda.

È curioso, oggi, riprendere in mano tra i suoi titoli uno di quelli meno universalmente amati: L’immortalità. Sul retro, campeggia un virgolettato di Pietro Citati che è difficile contraddire: «Basta aprire il libro, leggere due righe, corteggiare un’immagine, inseguire disperatamente un motivo; e ci diciamo sorridendo: “È Kundera”». Ma è aprendolo davvero che ritroviamo quella voce che, proprio perché custodita tra le pagine, non ci mancherà. Tra le pagine orecchiate, spunta una frase rassicurante: «La morte e l’immortalità sono come una coppia di amanti inseparabili, e colui il cui volto confondiamo con il volto dei morti è già immortale da vivo».

Milan Kundera è morto. Muss es sein? Es muss sein.