Al di qua del muro. Omero nel carcere di Bollate per gridare contro le guerre
Presentato al recente Filmmaker Festival 2024 di Milano “Il pianto degli eroi” di Bruno Bigoni e Francesca Lolli. Nel penitenziario maschile di Bollate a Milano i detenuti mettono in scena la loro “Iliade”. Uomini che combattono, si sfidano, si uccidono. Anche se ormai hanno dimenticato la ragione delle loro guerre. Potenti i loro sguardi, i loro gesti che, a poco a poco, svelano di aver compreso l’inutilità della ferocia, l’assurdità di una guerra …
Le mura. Alte, spesse. Che sembrano inespugnabili. Come dovevano apparire agli achei quelle di Troia. E poi gli uomini. Che combattono, si sfidano, si uccidono. Anche se ormai hanno dimenticato la ragione delle loro guerre. L’Iliade, insomma. Ma qui non siamo nell’antica Troade omerica. Siamo in via Cristina Belgioioso, a due passi dalla fermata della metro M1 a Milano. Siamo nel carcere di Bollate.
Perché qui, nel penitenziario maschile, due registi-insegnanti, Bruno Bigoni – sì, proprio uno dei fondatori, ormai 50 anni fa, del teatro dell’Elfo – e Francesca Lolli – da sempre impegnata a raccontare su libri e pellicole la condizione femminile – col sostegno dell’università Iulm, di un gruppo di studenti del corso “Cinema Tv e New Media” e di tre attrici sono andati a girare Il pianto degli eroi. Una strana, affascinante, problematica trasposizione dietro le sbarre del poema omerico, con l’aggiunta di qualche riferimento finale alle Troiane di Euripide.
Strana, si è detto. Perché il film non comincia – come vorrebbe il poema – sull’Olimpo, con lo scontro fra gli dei provocato da Eris, la dea della discordia. Il film è diviso in due parti e la prima è una sorta di casting-confessione. Dove i detenuti raccontano davanti ad un microfono perché sono stati scelti o perché hanno scelto il ruolo di Ettore, di Menelao, di Priamo o di Achille. O di un semplice messaggero. O di chi ha scelto di fare l’”ombra”, l’altra faccia – silente e solo rabbiosa – di Achille.
Raccontano, si raccontano. Misurandosi con la guerra, con l’odio.
Facendo i conti non solo con gli echi lontani dei conflitti che lacerano il mondo, anche con quelli, ma raccontando soprattutto le loro guerre quotidiane. E loro combattono per trovare una ragione con la quale sopportare le giornate tutte uguali, combattono per relegare in un angolo i demoni che li accolgono la mattina e non li lasciano mai. Combattono per non perdere la dignità, anche se sepolti dietro quelle sbarre.
E ad aumentare la sensazione di stranezza, c’è il modo col quale si fermano davanti alla telecamera. Mai teatrale, mai retorico ma neanche mai banale. Condito spesso da quel sottile umorismo, un amaro umorismo, che può accompagnare solo chi ha sperimentato e sperimenta la vulnerabilità, la perdita della libertà.
E poi c’è la seconda parte. La storia. L’Iliade a Bollate. Col rapimento di Elena e quel che ne consegue. Narrata da una voce fuori campo, mai ingenua, e dalle scene. Filmate nel lungo corridoio dove si affacciano le celle e nel cortile. Sormontato da enormi mura. Che allo spettatore appaiono chiarissime, perché il film è quasi tutto girato in bianco e nero. E l’ambientazione, questa ambientazione, contribuisce a creare quell’atmosfera di tragedia, ancora più che la trama.
Dove i protagonisti, tutti, parlano ognuno una lingua diversa. Ognuno la propria lingua. L’arabo nelle tanti varianti maghrebine, l’inglese o i dialetti. Calabrese, milanese. Tutti.
Raccontano la ferocia. L’assurdità di una guerra. Che forse non vorrebbero più neanche combattere ma sono spinti, costretti a farla. Come volevano le regole di migliaia di anni fa, come vogliono le regole di oggi. Come vogliono le regole che governano il mondo, come vogliono le regole che presiedono alle guerre fra gang.
Nei loro sguardi, nei loro gesti, ed anche nelle loro titubanze interpretative, svelano di aver compreso l’inutilità della ferocia.
Che devasta, devasta soprattutto le incolpevoli donne (ecco il riferimento alle Troiane). Ma lascia “vuoti” anche gli uomini.
E non c’è l’happy end. Perché è vero che nell’ultima scena a colori si vede il cielo fuori dal carcere. Ma le mura, quelle enormi mura sono ancora lì. Immobili. A rinchiudere gli attori-detenuti. Che possono solo sognare. Prima di rientrare in cella.
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