Ben Jelloun-Castellina: dialogo a due cercando la pace che non c’è. Ma anche il cinema deve fare la sua parte

Tahar Ben Jelloun e Luciana Castellina a “Confronti” nuova sezione delle Giornate degli Autori dove il 28 agosto hanno dialogato sul tema della cultura per la pace. Dopo tanto spendersi per il dialogo tra culture, Israele e Palestina in primis, lo scrittore marocchino si dice “pessimista sul futuro. La cultura aiuta a capire, ne abbiamo bisogno, ma non può fare miracoli in un mondo dominato dalla corsa agli armamenti”. Mentre la Castellina, instancabile attivista per la pace, propone che anche il cinema tutto, proprio dalla Mostra, faccia la sua parte per chiedere la fine delle ostilità e una nuova possibilità di dialogo. Oltre alla richiesta a Israele di far entrare a Gaza i giornalisti …

“La pace non è possibile”. “Diamo una possibilità alla pace”, come cantava John Lennon. Di queste due posizioni antitetiche, una che annulla ogni speranza, l’altra che cerca uno spiraglio, sono interpreti due personaggi d’eccezione, Tahar Ben Jelloun e Luciana Castellina. I quali hanno animato da par loro, sul terreno fertile della politica, del cinema e della letteratura, l’incontro di apertura delle Giornate degli autori, il tradizionale appuntamento della Mostra del cinema di Venezia promosso dalle associazioni dei registi e autori cinematografici.

Lo scrittore, poeta e saggista marocchino con cittadinanza francese è stato ospite e presidente onorario dell’edizione 2024 di Bookciak, Azione! il concorso che ogni anno premia a Venezia – come evento di pre-apertura delle Giornate degli autori, quest’anno dedicato al tema della pace quotidiana – i migliori corti ispirati a libri pubblicati da editori indipendenti e premiati a loro volta da Bookciak Legge. Luciana Castellina, politica, giornalista, saggista, da pochi giorni magnifica novantacinquenne, ha accettato di buon grado il confronto con lo scrittore franco-marocchino su un tema così difficile. E divisivo nonostante l’adesione quasi unanime all’obiettivo della pace, al netto dei distinguo su come arrivare alla pace.

Muovendo dalla sollecitazione del delegato generale delle Giornate degli Autori, Giorgio Gosetti, il quale ha ricordato che registi, sceneggiatori e autori cinematografici hanno il dovere di prendere posizione sul tema della guerra e della pace e che la cultura dev’essere meno acquiescente alla politica, l’evento di cui sopra ha prodotto tre richieste pressoché unanimi, tenuto conto sia dell’impossibilità di arrivare a una sintesi sia degli scarsissimi margini di manovra di cui dispone oggi l’opinione pubblica su questi temi: l’appello a Israele perché conceda ai giornalisti la possibilità di entrare a Gaza per raccontare cosa succede; la richiesta di una dichiarazione ufficiale della mostra del Cinema, magari d’intesa con tutti gli altri festival, a favore della sospensione delle ostilità in Israele e a Gaza; la richiesta da avanzare alla neo costituita Commissione Cultura del Parlamento europeo affinché si adoperi per riavviare il dialogo tra israeliani e palestinesi, riprendendo il filo della cooperazione in ambito cinematografico di cui esistono precedenti significativi. “Forse l’appello è un po’ retorico – ammette lo stesso Gosetti – ma vale comunque la pena provarci”.

Si apre il confronto
Ben Jelloun. “Io, arabo e musulmano di nascita, non riesco a trovare le parole per esprimere l’orrore per ciò che Hamas ha fatto il 7 ottobre 2023. La barbarie non ha scuse né giustificazioni. Sul fronte opposto, i palestinesi di Gaza vivono sotto embargo da oltre quindici anni, hanno imparato a conoscere la morte in tutte le sue forme. Adesso l’esercito israeliano non colpisce soltanto i miliziani, ma bombarda interi quartieri e uccide famiglie indifese. Davanti a questi eventi, la mia rabbia non sa più che direzione prendere. La rabbia è impotenza, è il fuoco dentro che non riusciamo a controllare. Questo è il tempo della guerra, il tempo della rappresaglia, il tempo della vendetta, mentre dovremmo pretendere il tempo del dialogo. Ma nessuno, al momento, sembra guardare a quel giorno”. Queste parole, che aprono il libro L’urlo (tradotto e pubblicato in italiano da La nave di Teseo nel 2024, ndr), le ho scritte subito dopo il 7 ottobre, ancora sotto l’effetto dell’orrore provato quel giorno. Ma già allora sapevo che ci sarebbe stato un contrattacco ancor più terribile. E infatti subito dopo è iniziato il bombardamento della popolazione civile da parte dell’esercito israeliano. Così, alla barbarie messa in atto da un movimento che si oppone alla colonizzazione e che usa il terrorismo, ha fatto seguito un’altra barbarie.

Luciana Castellina. L’aspetto più grave è l’incapacità di comprendere i rischi che stiamo correndo. All’inizio ci siamo spaventati, poi è subentrata l’assuefazione agli orrori che ogni giorno vediamo trasmessi dalla tv. Questo aspetto non è entrato nel dibattito politico né in Italia né in Europa. Proprio in questi giorni un esponente dell’agenzia Onu che si occupa di energia atomica ha messo in guardia i governi dai rischi di un conflitto nucleare imminente. È importante che la Mostra parli di queste cose, non solo come materiale per il cinema ma proprio come oggetto di riflessione. Se noi siamo qui per dire no alla guerra non è per vetero pacifismo ma è per ribadire che la guerra non si può più fare. Una volta si scendeva in campo per combattere contro il nemico, ma è finito il tempo di “eran trecento erano giovani e forti”. Oggi non si risolvono le cose con lo scontro militare. Bisogna superare la fase medievale, superare la logica dei blocchi militari e delle alleanze e scendere a patti con il nemico. Dobbiamo chiedere alle istituzioni come pensano di uscire da questa guerra: forse continuando a fornire armi a una delle due parti in causa? Per prima cosa io dico: basta all’invio di armi. E poi chiedo a Ben Jelloun: cos’altro possiamo fare?

Ben Jelloun. La guerra non ha mai risolto i problemi. La situazione in Ucraina è più difficile da capire e il comportamento dell’Ue e degli Stati Uniti è ambivalente. Ma a Gaza la situazione è molto semplice: c’è una popolazione civile che viene bombardata ogni giorno e ogni notte, con bombe che esplodono anche dopo diversi giorni e uccidono bambini. Questo viene fatto intenzionalmente da un esercito criminale. C’è uno squilibrio troppo forte tra le due parti in causa. La guerra a Gaza è stata voluta da un uomo che cerca di sfuggire alla giustizia di un paese democratico e che ha già fatto uccidere 42 mila persone a Gaza commettendo crimini inauditi contro i palestinesi e contro il suo stesso popolo. Lui non ha alcuna intenzione di dialogare e neppure Hamas. La situazione è in stallo. Guardiamo al caso del Marocco, che aveva firmato gli accordi di Abramo con Israele, ottenendo come contropartita il riconoscimento della parte contesa del Sahara occidentale. È stato un successo diplomatico che ha fatto affluire in Marocco oltre un milione di turisti israeliani. Dopo il 7 ottobre si è fermato tutto.

Luciana Castellina. Per la verità speravo che Kamala Harris portasse un contributo nuovo. Invece ha fatto espellere dalla Convention democratica un attivista ebreo che parteggiava per i palestinesi. Io sono per metà ebrea e così nessuno mi potrà accusare di essere antisemita se attacco la politica del governo israeliano. Sono completamente d’accordo con il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres quando ricorda che Hamas non è caduta dal cielo. Lo stesso Giulio Andreotti diceva che se fosse nato in un campo profughi palestinese sarebbe diventato un terrorista anche lui. Ma per capire la situazione di oggi non basta sapere cosa è Hamas. Bisogna forse risalire al XIX secolo, quando un gruppo di ebrei europei fondò il movimento sionista innamorandosi dell’idea che la loro terra dovesse essere la Palestina perché questa era la volontà di Dio. Un’idea subito raccolta da due ufficiali, uno inglese e uno francese, che iniziarono a spartirsi sulla carta questo pezzetto di terra. Ecco: l’informazione su tutto questo è un punto fondamentale. Concordo con l’idea della Cgil di distribuire agli studenti impegnati a favore della Palestina un libro che parla della storia del sionismo. Sono a favore di queste iniziative, da divulgare anche con l’aiuto del cinema.

Ben Jelloun. Io però sono pessimista sul futuro, realista ma pessimista. C’è troppo odio accumulato. Un bambino che vive a Ramallah occupata e colonizzata non ha altra scelta che diventare, non dico un terrorista, ma un uomo della resistenza che lotta per liberare le sue terre occupate. Oggi questa liberazione è impossibile. Sono stato due volte sul campo e ho parlato con tutti, anche nelle scuole. Purtroppo ho potuto constatare di persona che i bambini sono educati all’odio sin da piccoli. I bambini palestinesi odiano i bambini israeliani e quelli israeliani odiano i palestinesi. Ho partecipato a molti dibattiti in Europa ma tutto questo non ha portato a nulla. Siamo impotenti, intellettuali, scrittori, uomini di cultura. Non sappiamo più cosa fare perché le armi sono più forti di noi. Non ci sono soluzioni. Ci si massacrerà all’infinito, o per lo meno finché il popolo israeliano non deciderà di sbarazzarsi di Netanyahu. E forse, fra cent’anni, il fuoco sotto le ceneri si raffredderà.

Luciana Castellina. Vorrei parlare con un pezzo di Israele con cui non riesco più a dialogare. La guerra cambia le persone, le rende meno sensibili. In tutte le manifestazioni di protesta fatte in questi mesi in Israele contro la riforma della giustizia non ho mai visto un cartello a favore degli 8 mila palestinesi in carcere senza processo. Servirebbe una voce più concreta sulle cose da fare. Certo, la soluzione dei due stati è difficile. Ma perché intanto i paesi che ancora non lo hanno fatto – tra cui l’Italia – non riconoscono lo Stato palestinese? Il riconoscimento di una voce legittima sarebbe un atto formale ma dal valore politico assai rilevante. E poi voglio fare un’autocritica. Lottavamo per un’ Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali, avevamo con noi gente del calibro di Olof Palme e Willy Brandt. Dopo la caduta del muro di Berlino non abbiamo più fatto nulla e tutto è andato nel senso contrario a quello che avremmo voluto. Abbiamo lasciato che la Nato passasse da 12 a 30 paesi nel giro di due soli anni. Durante una convention su pace e giustizia a Porto Alegre (Forum mondiale sociale 2002, ndr) un giovane dissidente russo mi ha chiesto: ma perché vi occupate tanto di Amazzonia e non parlate più della Russia? Il forte movimento di quegli anni si è perso per strada.

Ben Jelloun. Purtroppo la sinistra israeliana resta minoritaria e le manifestazioni per la pace sono diventate un ricordo. Possiamo ancora parlare con qualche israeliano che non cerchi vendetta ma vuole la coesistenza? Purtroppo la situazione è diventata inestricabile. In Francia si usa molto l’equazione fra opposizione al sionismo e antisemitismo. Se ti opponi alle politiche di Israele ti accusano di essere antisemita. Ti impediscono di parlare e questo è insopportabile. Però è vero che la tensione fa aumentare l’odio e anche l’antisemitismo, oltre alla resistenza. Spesso le persone rimaste sole non hanno altra scelta che quella di arruolarsi per cercare vendetta. Anni fa lo scrittore israeliano Amos Oz ha scritto un pamphlet in cui invocava: aiutateci a divorziare! Il fatto è che non c’è mai stato un matrimonio e quindi non può esserci alcun divorzio.

Luciana Castellina. Eppure abbiamo avuto dei momenti di collaborazione. Ricordo quando con il movimento delle Donne in nero marciavamo lungo le mura di Gerusalemme. Lo abbiamo fatto per anni, poi è finito tutto. Perché? Bisognerebbe ritrovare quei canali. Quando ero presidente della Commissione Cultura del Parlamento europeo abbiamo fatto molte riunioni e creato progetti di collaborazione cinematografica tra israeliani e palestinesi. Potremmo ripartire da lì e con l’aiuto dell’Europa cercare di riallacciare i rapporti. Il cinema è un bel soggetto. Potrebbe diventare un soggetto attivo, ad esempio, coinvolgendo tutti i festival per promuovere iniziative comuni e mettendo insieme israeliani e palestinesi, ciascuno con i loro film.

Ben Jelloun. È una proposta molto generosa ma difficile da realizzare perché oggi chi prende iniziative di questo genere rischia di essere considerato un traditore. Certo, la cultura aiuta a capire, ne abbiamo bisogno, ma non può fare miracoli in un mondo dominato dalla corsa agli armamenti. Anche la poesia e la letteratura sono una risorsa, ma occorre che riescano ad arrivare lì dove serve. Quando la destra va al potere attacca la cultura perché ha paura della creatività e della libertà di pensiero. Pensiamo ad esempio a cosa succede in Afghanistan, con quello che i talebani stanno facendo alle donne. Parlo di un paese che è stato invaso prima dai sovietici e poi dagli Stati Uniti, i quali continuano a creare ovunque problemi. Come si può pensare alla pace se un sedicente presidente democratico come Joe Biden continua a dare armi a Israele per uccidere i palestinesi? Dovremmo imparare dagli animali. Nessuno di loro si riunisce per elaborare una strategia mirata a uccidere altri animali.