Bentornato al gotico padano. Pupi Avati spaventa (e chiude) Venezia 81

Passato fuori concorso come film di chiusura di Venezia 81, “L’orto americano” nuovo capitolo horror di Pupi Avati dal suo omonimo libro (Solferino). Un ritorno a casa per Pupi che chiama a raccolta tutta la sua filmografia horror e i suoi riferimenti cinematografici, a partire dalla scelta dell’intenso bianco e nero. Il regista bolognese ottantaseinne fa ancora piantare le unghie dello spettatore nei braccioli della poltrona …

È confortante che Pupi Avati, che per quasi sessant’anni spesi a spaventarci con storie macabre dal greve accento della bassa emiliana, quasi novantenne (ottantasei anni, per la precisione) non abbia perso la voglia di farci alzare quattro dita di pelle d’oca raccontando le sue storie più inquietanti.

Lo ha fatto ancora una volta, prima col libro L’orto americano, (ed. Solferino, 2023) e poi chiudendo l’edizione n.81 della Mostra del Cinema di Venezia col film che ne ha tratto.

1945, tra le macerie di Bologna appena liberata dagli alleati un ragazzo è seduto sulla poltrona del barbiere la cui bottega è miracolosamente scampata ai bombardamenti che hanno devastato la città. Si apre la porta ed entra un’infermiera americana che chiede quale sia la strada per raggiungere Ferrara. Il ragazzo parla inglese e le da l’informazione. Bastano i pochi secondi di questo incontro nel riflesso di uno specchio per folgorare irrimediabilmente il ragazzo del quale non sapremo mai il nome. Di lei invece, lo sapremo dopo un po’, è Barbara, americana, bellissima.

1946, il ragazzo arriva in America, nell’Iowa, con una macchina da scrivere e la speranza di scrivere un libro che dopo tanti fallimenti possa essere pubblicato. Prende possesso di una casetta quando le urla di un’anziana vicina danno il là al gorgo nel quale vicenda e protagonista annasperanno per tutto il film. Di lì la scoperta che la vicina è la madre dell’americana bellissima e la notizia che di Barbara si sono perse le tracce nella bassa Ferrarese, ad Argenta, proprio nei giorni del loro incontro. Mentre voci e lamenti misteriosi vengono dall’orto della vicina in completo abbandono a cui si aggiunge il macabro ritrovamento di un vaso di vetro con una misteriosa etichetta e all’interno resti umani in formalina.

Con l’aiuto di un prete erudito viene decifrata l’etichetta il cui testo mischia le parole di un antico poeta greco (Bacchilide) nascondendo indicazioni sui perché e sui per come del contenuto. Il ragazzo torna a Bologna ormai ossessionato dalla storia di Barbara e inizia una ricerca che ha il sapore di un’autentica discesa agli inferi nella quale il confine tra realtà e delirio non è mai riconoscibile.
Ecco, basta così perché la storia de L’orto americano, il film di Pupi Avati va vista dal primo minuto all’ultimo con le unghie piantate nei braccioli della poltrona.

Ancora una volta si torna nei territori, geografici e cinematografici, cari al regista: la bassa tra la via Emilia e il Po con tutto il portato di storie popolari bisbigliate in paese, facce di contadini padani, e le foschie che avvalorano le leggende più raggelanti.

Ad un cast “avatiano” che più di così non si può, a partire da Andrea Roncato, Massimo Bonetti, Cesare Cremonini e quelli non consueti ma perfettamente nella parte come Armando De Ceccon, Roberto De Francesco, Chiara Caselli si aggiunge un mostro sacro del free cinema che è Rita Tushingham a dare voce, corpo e disperazione alla madre di Barbara. Su tutti però è Filippo Scotti, già protagonista di È stata la mano di Dio di Sorrentino, a dare prova di grande qualità in un ruolo difficile come quello del “ragazzo” che sa passare dalla lucidità al delirio senza mai sbandare o andare sopra le righe.

Con quest’ultima opera Pupi Avati sembra voler tornare a casa chiamando a raccolta tutta la sua filmografia horror e i riferimenti cinematografici amati che troviamo sparsi per accenni e strizzatine d’occhio, a partire dalla scelta del bianco e nero avvalendosi della magistrale fotografia di Cesare Bastelli.

Il bianco e nero della prima parte di ambientazione americana, così nitido e definito, ricorda quello de L’ora di Hitchcock o di Twilight zone mentre quello “padano” appare più sfumato e polveroso come avvolto da una leggera foschia, almeno fino alle inquadrature finali quando, complice l’ambientazione fatta di acqua e camioncino sull’argine in campo lungo arriva un eco dell’unico irripetibile film di Charles Laughton, La morte corre sul fiume (con quel meraviglioso cattivo che era Mitchum).

Ma il ritorno di Avati nelle stanze del gotico padano, genere (sempre che abbia senso categorizzare) del quale ha scritto le regole e definito i canoni, è anche nelle atmosfere e nei dettagli che ci ricordano tutti i suoi titoli da Balsamus, l’uomo di Satana fino all’ultimo Il signor diavolo, passando per La casa dalle finestre che ridono e Zeder. Se Fellini aveva come attore-feticcio Mastroianni, Avati aveva Bob Tonelli (mancato nel 1987) e ne L’orto americano, ad esempio e a conferma dei rimandi alla propria filmografia, c’è persino un personaggio che si chiama Ariano, come il vero nome di Tonelli, il Balsamus del primo film e di altri dieci lavori. Nel film c’è una bara che si spalanca? L’avatiano irriducibile sobbalza anche perchè nel ghigno del cadavere riconosce quello del Don Luigi Costa di Zeder.
L’Orto americano, alla fine di tutto e al di là della ricerca di Barbara, è un film di profonde atmosfere e suggestioni. Non spiega fino in fondo, lavorando sempre tra il reale e l’irreale di un dramma di pianura e di un’ossessione di un amore non vissuto.