Cercando Borroughs disperatamente. Luca Guadagnino a Venezia 81 si perde nel mondo “Queer”

Passato a Venezia 81, l’atteso nuovo film di Luca Guadagnino, “Queer”, terzo italiano in corsa per il Leone d’oro. Dall’omonimo libro manifesto di William S. Borroughs, il racconto dei tormentati anni “messicani” del padre della beat generation, tra droghe, sesso e amori mancati e il tema dell’omosessualità in primo piano. Daniel Craig, ex machissimo 007, primeggia nel ruolo del protagonista …

In principio era Diverso, poi è venuto Checca, oggi è Queer. Le quattro lettere sono stampate in rosso sulla attuale copertina azzurrina di Adelphi, poco più in alto, in corsivo, il nome dell’autore, monumento della beat generation, William S. Borroughs. Luca Guadagnino ha preso quelle quattro lettere e le ha scritte in blu per titolare il suo film, Queer appunto, terzo italiano passato in concorso a Venezia 81, tra le speranze dei fan del regista palermitano.

Le oltre duecento pagine, scritte da Borroughs nel 1952, che seguono la copertina sono adattate in 135 minuti, almeno nella versione proiettata a Venezia, in realtà il terzo rimaneggiamento in cabina di montaggio per il film. L’evoluzione del titolo nella traduzione italiana (pubblicata nel 1985) ne spiega la difficoltà, soprattutto in un paese ancora succube di una nemmeno troppo latente omofobia, davanti al racconto in larga parte autobiografico di Borroughs, un manifesto anche della letteratura lgbtq+, dove la q indica appunto queer.

Dopo il successo inarrestabile di Chiamami col tuo nome (dal romanzo dell’americano André Aciman), Guadagnino si è imposto come voce cinematografica dei racconti letterari arcobaleno. Qui ha scelto di dedicarsi a uno tra i più complessi e amati, progetto ambizioso, accarezzato fin da ragazzo quando lo lesse a 17 anni. Anche perché Queer ha una trama e una struttura intricata, racconta prima la Città del Messico degli anni ’40 e ’50, in cui i gringos passavano le giornate a far conquiste e sbronzarsi, poi l’innamoramento del suo protagonista Lee per il giovane e aitante Allerton, infine il viaggio di entrambi in Sudamerica alla ricerca della mistica pianta yage, capace di mettere in sintonia le persone attraverso il loro spirito.

Le voci che circolavano insistenti attorno al film parlavano di un Daniel Craig nel ruolo della vita, una premessa che non fa bene all’ex 007, correndo il rischio di alzare troppo le aspettative. Il lato migliore del suo lavoro è invece quello extrafilmico, di capovolgimento dell’immaginario. Lui, divenuto famoso come l’icona del macho, James Bond, che si trasforma nello scrittore omosessuale, drogato e impacciato, innamorato senza riuscire a essere ricambiato.

Guadagnino, seguendo il suo protagonista attraverso la sua ricerca artistico-lisergica, riempie il  film di momenti onirici e allucinatori, alcuni più riusciti (la mano di Lee che immagina un contatto con il suo amante) e altri meno (innumerevoli visioni a cui ci sottopone assieme al suo protagonista). Queer è in fondo anche un delirio, non necessariamente nell’accezione negativa del termine, ma come un luogo dove è facile smarrirsi.

Ci si smarriscono i personaggi sì, ma anche lo spettatore, con la differenza che ai primi viene offerta anche la possibilità di guardarsi dentro e ritrovarsi grazie ai potenti e spaventosi effetti dell’erba yage. La realtà è uno specchio che però può trasformarsi anche in un passaggio, non a caso è l’Orfeo di Cocteau che i due vanno a vedere al cinema. Lo spettatore per specchiarsi ha invece solo il film e rimane nella giungla narrativa, senza via di scampo.

La costruzione della realtà è un aspetto fondamentale di tutto il film, non a caso girato in larghissima parte a Cinecittà, dove i paesaggi ricreati sono volutamente al limite del posticcio. Guadagnino, come Borroughs, non si interessa all’aderenza ma, come ci ripete all’infinito, alla separazione dal corpo. Quello stesso corpo che per Lee sta diventando una prigione, complici la scimmia da tossicodipendenza e l’amore frustrato per Allerton, che queer non lo è davvero.

A film finito, però, il personaggio può aver compiuto un viaggio riappacificante coi suoi traumi e il suo amore, ma non è lo stesso per chi ha assistito alla storia. In molti hanno lodato la devozione che il regista ha avuto per il libro, eppure un film non può mai replicarlo davvero e una chiave che per la letteratura può essere geniale, per il cinema può rivelarsi sterile.

È così che naufraga Queer, nel dolce mare delle speranze dell’inizio, suggellate da un applauso d’incoraggiamento non appena appare sullo schermo il nome del regista, seguito in chiusura da qualche gesto di mancato apprezzamento in plateale. Ma l’ultima parola, lo sappiamo, spetta alle sale dove Queer uscirà prossimamente per Lucky Red.