Cineclub e rivoluzione, ma il cazzeggio dov’è?

Alla Festa, “Filmstudio mon amour” di Tony D’Angelo, dedicato alla storica sala romana dove passarono da Rocha a Solanas, da Antonioni a Godard e pure un giovanissimo “autarchico” Nanni Moretti. Un film dichiaratamente nostalgico, che sembra scritto da un reduce degli anni 70 piuttosto che da un giovane cineasta nato nel ’79.

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Non mancano spunti interessanti nel documentario di Tony D’Angelo, Filmstudio mon amour,  presentato mercoledì 21 ottobre alla festa del Cinema a Roma. Soprattutto le interviste ad alcuni protagonisti (dai fondatori Americo Sbardella e Annabella Miscuglio, Armando Leone, per finire a registi di culto come Wim Wenders, Jean-Luc Godard e alla coppia Straub-Huillet) e i materiali d’archivio Rai (e non solo) fanno la parte del leone in un film dichiaratamente nostalgico, che sembra scritto da un reduce degli anni 70 piuttosto che da un giovane cineasta nato nel ’79.

Anche l’aria seriosa e persino un po’ cupa del film – che la voce fuori campo non aiuta a dissipare, anzi – sembra rinviare a un’epoca intrisa di ideologia e di impegno militante, nonostante il richiamo finale alle giovani generazioni di appassionati d’arte e di cinema che sappiano fare tesoro del patrimonio passato.

Eppure il Filmstudio non è stato solo quello che appare nel film, una specie di laboratorio di cinema militante e sperimentale, culla del femminismo e dei movimenti di lotta politici (lotta è una parola che ricorre spesso, compresa quella che avrebbe riportato alla riapertura del cineclub dopo 15 anni, nel 2002-2003; il regista però dimentica di citare il ruolo fondamentale che in essa ebbe l’impegno personale di Gianni Borgna, quand’era consigliere regionale e poi assessore alla cultura).

È stato tutto questo, ma è stato anche il luogo in cui si potevano vedere film “leggeri”, per qualche ragione legati alla distribuzione del tempo o ad altro – non esclusa la censura o la dissonanza rispetto alle mode dell’epoca – tagliati fuori dai circuiti maggiori, oppure dimenticati: i grandi noir americani, l’intera cinematografia di Buster Keaton e dei fratelli Marx, film musicali come The last concert dei Cream e Gimme shelter con i Rolling Stones, e tanti altri.

In questo il Filmstudio rispecchiava perfettamente, specie nel suo periodo di maggiore splendore, cioè negli anni 70, una dicotomia che attraversava il movimento, cioè quella tra un’ala dura e militante, estremamente politicizzata, e un’ala più orientata al cazzeggio, con venature hippie e libertarie, che poi avrebbe dato un forte contributo al movimento del ’77. A rappresentare benissimo questa anima più “leggera”, ma cinefila fino all’eccesso, c’era un personaggio come Enzo Ungari, per anni animatore del Filmstudio assieme ad Adriano Aprà, scrittore e poi sceneggiatore di Bertolucci prima di morire giovanissimo per un male incurabile.

È vero che, con la sua programmazione rigorosa ed estremamente impegnata, il Filmstudio ha formato un’intera generazione, se non di cinefili, di appassionati di cinema, oltre a fare da caposcuola e apripista a una serie di cineclub che fiorirono a Roma in quel periodo: da L’Occhio, l’orecchio e la bocca all’Officina, dal Cineclub Tevere al Politecnico, dal Labirinto all’Azzurro Scipioni, la maggior parte dei quali poi è stata costretta alla chiusura per mancanza di fondi e, in parte forse, per mancanza di pubblico.

Con grande onestà l’attuale gestore ma anche memoria storica del Filmstudio, Armando Leone, ricorda i giorni in cui c’erano pochissimi spettatori a vedere film costati magari un’enorme fatica e anche un esborso notevole per poterli avere a disposizione. E poi ricorda anche quelli in cui le sale si riempivano quasi inaspettatamente per vedere film come Nel corso del tempo di Wim Wenders. Per non parlare della sorpresa che colse gli scettici programmatori quando Nanni Moretti proiettò al Filmstudio con grande successo di pubblico l’anteprima di Io sono un autarchico.

Dunque, un film utile e necessario questo Filmstudio mon amour, se non altro per tenere alta la bandiera di una sala che fa parte integrante del paesaggio culturale romano, e non solo. Forse gli avrebbe giovato un tocco più leggero, anche per renderlo più affine a quella che era la sua intima vocazione. E non solo: per avvicinare le nuove generazioni a un modo di fruire il cinema che non per forza deve appartenere al passato.