Copyright atto finale, la legge europea scritta dalle major. Cari autori perché la invocate?
E’ cominciata la discussione sull’applicazione della discussa normativa europea sul copyright. Quella stessa legge che, dettata dalle major, è stata invece spacciata come una vittoria dei diritti contro le big tech, contro YouTube, Facebook e le altre. Fatto sta che, nei giorni scorsi, tanti tantissimi autori italiani hanno lanciato un appello a governo e Parlamento perché approvino al più presto la direttiva, mostrando una palese contraddizione, poiché come gli stessi autori riconoscono, sono proprio le major a regolare e controllare il mercato …
È un po’ il rischio di tutte le “lettere aperte”, di tutti gli appelli: l’autorevolezza dei firmatari può far passare in secondo piano il contenuto.
Succede. Succede spesso. È il caso dell’ennesimo, disperato appello (lanciato dai 100autori leggilo qui e Anac) che praticamente tutto il mondo del cinema e dell’audiovisivo italiano ha rivolto a governo e Parlamento perché approvino al più presto la direttiva europea sul copyright. Quella varata l’anno scorso e che tante associazioni e movimenti sociali hanno provato fino all’ultimo a bloccare. Senza successo. E che entro l’estate prossima dovrà trasformarsi in legge nei vari paesi del vecchio continente.
È il caso di quell’appello, si diceva, dove l’autorevolezza dei firmatari può far velo sul testo. Perché fra quei nomi c’è sicuramente il “pezzo” del cinema italiano che si è sempre contraddistinto per impegno sociale. Politico, culturale. Non tutti i firmatari, ovvio (l’appello copre davvero un arco enorme di posizioni politico-professionali, diciamo così) ma ci sono quei nomi che pesano nella cultura democratica di questo paese.
Oltre alle firme, però, c’è il testo. Che rivela una palese contraddizione. Drammatica contraddizione. Gli autori, gli artisti, i registi spiegano che il loro lavoro è ridotto ai margini perché la loro produzione culturale non ottiene mai i giusti riconoscimenti economici.
Un dato che purtroppo abbiamo imparato a conoscere. Ma gran parte della colpa di tutto questo non è né di nuove, né di vecchie normative. Lo ammettono anche egli estensori del documento: “.. anni di consuetudini hanno fatto sì che gli autori – la parte più debole nelle trattative – sono costretti a rinunciare per contratto alle percentuali previste”. La responsabilità dunque è della loro controparte, è delle major, dei produttori che regolano e controllano il mercato.
E quelle major sono state esattamente le lobby che hanno dettato la normativa europea sul copyright che gli autori rivendicano. Perché soltanto chi era interessato a quella visione liberticida del “tutti i diritti riservati” – ed in questa categoria purtroppo va ascritta anche tanta parte del centrosinistra nostrano e addirittura il sindacato dei giornalisti –; soltanto chi era interessato ha potuto spacciare le nuove norme come una vittoria dei diritti contro le big tech, contro YouTube, Facebook e le altre.
Lo scontro c’è stato, è vero, durissimo. Ma è stato esattamente uno scontro fra i vecchi oligopoli (editori, major musicali e cinematografiche) contro i nuovi oligopoli, le Tech Giants, gli Over The Top. Uno scontro nei quali gli altri – tutti gli altri, dagli utenti agli artisti – non hanno avuto voce in capitolo.
Hanno vinto i primi. Ci hanno rimesso tutti gli altri. Ed esattamente lo stesso sarebbe successo se avessero vinto i secondi, quelli che fanno profitti profilando le nostre vite.
Hanno vinto i primi. Così oggi abbiamo una direttiva che impedirà di citare un articolo di giornale, di condividire un’immagine e obbligherà i provider a filtrare con software i contenuti degli utenti. Alla disperata ricerca di chi usa dieci minuti di un video coperto da copyright. Così nessuno potrà più dire nulla. Potrà più fare nulla.
Di questa legge chiedono l’approvazione. Salvo poi accorgersi – anche questo lo scrivono testualmente – che il rischio è che, per l’ennesima volta, si favoriranno non gli autori delle opere ma “gli aventi diritto”. I proprietari del copyright. Chi ha comprato i diritti, cioè le major.
I firmatari aggiungono anche che sono la parte più debole del settore. Chiunque in realtà conosce almeno una persona che lavora nel settore e che è ancora più indifesa. Ma sarebbe una graduatoria orribile e soprattutto non è questo il punto.
Che voglio dire? Uso una metafora brutta. Brutta e azzardata, sicuramente forzata, sperando che nessuno se la prenda a male: ma sarebbe come se gli ultimi degli ultimi, i riders, chiedessero ad Amazon almeno un salario dignitoso; non riuscendo a trattare col colosso, si rivolgessero allora al governo, chiedendo una legge che in qualche modo faccia aver loro un po’ più di euro. E le risorse? “Trovatele sottraendo soldi al sostegno per le librerie”.
Sì, la metafora è azzardata. Di più: a ben vedere sbagliata, perché un intervento pubblico a sostegno dei salari, qualunque intervento pubblico a sostegno dei salari sarebbe sacrosanto, tanto più in questa fase. Ma resta il fatto che l’appello chiede giuste tutele, in cambio però dell’abrogazione del diritto alla conoscenza condivisa, in cambio del diritto ai saperi. E attenzione: perché quei diritti sono essenziali se si immagina un paese che voglia continuare a guardare film. Che voglia vedere film, documentari, leggere libri. Sono essenziali se non si vuole un paese che guardi solo Amici.
Quelle tutele che la lettera aperta giustamente rivendica le dovrebbero pagare innanzitutto le major non le libertà di tutti. La legge dovrebbe semmai aiutare la “categoria” a ritrovare potere contrattuale, non ad abrogare diritti “degli altri”.
Quella normativa andrebbe bloccata, allora, non applicata. Andrebbe rispedita a Bruxelles. Sembra fantapolitica, visto che una direttiva europea non può essere né disattesa, né ridiscussa. Eppure. Eppure due giorni dopo la pubblicazione di quest’appello, la legge francese Hadopi – proprio quella che ha dato il via alla vandea dei signori del copyright e che magari anche qualcuno fra i firmatari avrà salutato con entusiasmo anni fa – è stata giudicata anticostituzionale dai giudici d’Oltralpe. La via giudiziaria per sconfiggere la mostruosità della normativa europea non è né la più facile, né quella auspicabile. Ma forse tutto ancora si può fare.
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