Dal Medioevo di Luigi Malerba un presente di cialtroni. “Il pataffio” è in sala

In sala (con 01) dopo il passaggio al Festival di Locarno “Il pataffio” di Francesco Lagi dall’omonimo romanzo di Luigi Malerba (Quodlibet). Una scalcinata Armata Brancaleone alla volta di un castello in rovina e misera dote per il matrimonio dello spiantato e profittatore Marconte Bellocchio con Donna Bernarda. Un mondo di cialtroni e affamati con ottimo cast ma cadute di ritmo e non solo …

Diciamo subito che Il Pataffio, film scritto e diretto da Francesco Lagi con Rai Cinema in associazione con Colorado Film Production e in coproduzione con Umedia, già nelle sale italiane dopo il passaggio al Festival di Locarno, è tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Malerba (1927 – 2008), scritto nel 1978 e ripubblicato da Quodlibet nel 2015.

Un romanzo che si ispira chiaramente a L’Armata Brancaleone di Monicelli (1966) e che asseconda – forse più in sintonia con lo spirito dei tempi rispetto a Il Pataffio – la vena comica, dissacrante e picaresca del grande scrittore emiliano, tra i rappresentanti di punta della neoavanguardia sperimentalista del Gruppo 63 e sceneggiatore di cinema vario, soprattutto per Alberto Lattuada. Ma anche regista, per un’unica volta insieme ad Antonio Marchi, con Donne e soldati del ’54 stralunata commedia ambientata nel Medioevo e sceneggiata insieme a Marco Ferreri ed Attilio Bertolucci.

Il Pataffio, invece, narra le vicende del Marconte Bellocchio (Lino Musella) che ha ricevuto in dote un misero feudo sperduto tra i monti e ora ne prende possesso insieme alla sposa-vergine Donna Bernarda (Viviana Cangiano), una piccola corte composta da un consigliere (Giorgio Tirabassi) e un frate (Alessandro Gassman), e una scalcinata schiera di soldati senza arte né parte.

Per ottenere il suo scopo il Marconte deve superare la resistenza del prospiciente Castellazzo governato da una vecchia megera e quella dei sudditi affamati e riottosi guidati dal capopopolo Migone (Valerio Mastandrea), ai quali il nuovo padrone impone subito un regime di tasse e balzelli.

Al di là del messaggio politico evidente ma che poco riesce a decollare anche a causa di alcuni snodi della sceneggiatura, la vena grottesca è quella che risulterebbe più consona allo spirito del progetto, e anche a quello del libro da cui trae ispirazione. E al quale si rifà anche per la lingua usata dai protagonisti, inventata dallo stesso scrittore – a partire dal titolo che distorce epitaffio – mescolando il ciociaro, il romanesco e il latino, proprio come avevano già fatto la premiata ditta Age&Scarpelli ne L’Armata Brancaleone ma con maggiore arguzia e fantasia.

Gli attori, costretti ad assecondare un registro che non a tutti appartiene in natura, rischiano di gigioneggiare. E alcuni lo fanno senza pudore, a cominciare da Alessandro Gassman che vanamente cerca ispirazione nel padre Vittorio, inarrivabile. A convincere è la più misurata Viviana Cangiano, che con grande efficacia presta il suo volto al padre della sposa e alla sposa medesima.

Alla fine si resta con l’impressione di un film che, senza neppure sfiorare i vertici del capolavoro di Monicelli, rinverdisce i fasti dei b-movies anni 70, tipo quell’Amore, letti e tradimenti di Alfonso Brescia in cui il toscanissimo Don Backy sfoggiava un impagabile dialetto simil-ciociaro. Asseconda il tutto con discrezione la musica di Stefano Bollani.