Elio Germano, ragazzo volante per Netflix (e Fandango)

Presentato tra le pre-aperture della Festa di Roma, “L’uomo senza gravità” di Marco Bonfanti, già apprezzato documentarista e qui alla sua prima prova nella finzione. E che finzione, quasi un nuovo “Jeeg Robot” che vede Elio Germano nei panni di un ragazzo “volante”, che dovrà fare i conti, però, con tutto il peso della realtà che ti costringe coi piedi per terra. Un film coraggioso, con ottime prove d’attore: Michela Cescon, Elena Cotta e Silvia D’Amico. In sala il 21, 22 e 23 ottobre (con Fandango) e dal primo novembre su Netflix …

Tanto di cappello al regista Marco Bonfanti, co-sceneggiatore insieme a Giulio Carrieri de L’uomo senza gravità, prodotto da Isaria Production/Zagara/Climax Film, distribuito da Netflix e Fandango e presentato tra le pre-aperture della Festa del Cinema di Roma (17-27 ottobre).

Ci vuole coraggio per affrontare un tema del tutto inusuale per il cinema italiano (anche se non mancano i precedenti, Lo chiamavano Jeeg Robot e Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores), cioè una storia che si basa su un presupposto irreale e che dunque, oltre alla solidità della sceneggiatura, richiede una buona dose di fantasia, la padronanza del mezzo tecnico e in particolare degli effetti speciali (c’è sempre il rischio di cadere nel ridicolo o nella inverosimiglianza), nonché la scelta di attori che diano credibilità al tutto.

Si può dire che la scommessa, seppure in misura non esaltante, sia stata vinta da un regista che peraltro è al suo primo lungometraggio di finzione dopo auna serie di cortometraggi e, soprattutto, un paio di documentari che tanto hanno fatto parlare:  L’ultimo pastore, che gli ha dato gloria anche all’estero e o Bozzetto non troppo, dedicato al grande disegnatore.

L’uomo senza gravità si divide, grosso modo, in tre parti. Nella prima assistiamo alla nascita di un bambino, Oscar, figlio di una donna single un po’ sciroccata (Michela Cescon), tenuta sotto tutela da una madre apprensiva e dispotica (una impareggiabile Elena Cotta).

Uscendo dal grembo materno Oscar fluttua nell’aria attaccato al suo cordone ombelicale. Ben presto le due donne si accorgeranno che il bambino è destinato a sfidare la gravità e decidono di tenerlo recluso in casa per evitare che il mondo possa travolgerlo con le sue leggi implacabili. Solo una bambina conosciuta per caso, Agata, sembra accettare la diversità di Oscar come una dote naturale, anzi come manifestazione di superpotere. Decide così di regalargli uno zaino rosa che servirà a tenerlo ancorato a terra una volta libero della zavorra che madre e nonna gli hanno messo dentro i vestiti. Forse è questa la parte migliore del film, anche per merito della straordinaria, commovente, prova resa dai due bambini.

Nel secondo atto Oscar ormai grande, adesso nei panni credibili di Elio Germano, decide di sfruttare le sue magiche doti nello show business, con l’aiuto di un manager privo di scrupoli ma con un fondo di umanità, David Fedeli (Vincent Scarito, in una parte che gli si addice perfettamente). Dopo avere raccolto successi e denaro Oscar si accorge però di essere entrato in un meccanismo infernale, che lo costringe a vendersi l’anima in cambio di una ricchezza materiale che non gli dà alcuna gioia. Decide così di sparire nel nulla dopo essersi fatto credere morto, e si riduce a vivere miseramente come portiere di notte di un albergo a ore. Qui non mancano le annotazioni critiche nei confronti di un mondo – in particolare quello della televisione – che vive di sole apparenze e, come dice David, è “solo un bancomat” del tutto indifferente alle cose che dici e alla persona che sei.

A questo punto il film, però, ha già perso mordente. E, quando entra nel terzo atto, tutto centrato sul prevedibile incontro tra Oscar e una Agata ormai adulta e sulla via della perdizione – la bella e brava Silvia D’Amico – non riesce a evitare gli stereotipi, perdendo per strada quella leggerezza e quell’atmosfera innocente e un po’ magica che aveva colorato di rosa, come lo zaino di Oscar, tutta la prima parte.

Certo, il film si può leggere come metafora dell’innocenza perduta e del mondo reale che ti costringe a restare con i piedi per terra. Oppure come una sfida a rimanere sempre fedeli a sé stessi. Agli attori va riconosciuto il merito di averci creduto, tanto da aderire ai personaggi con un’intensità e uno sforzo interiore, ma anche fisico, che li rende credibili al cento per cento. Che tutto questo indichi una nuova strada per il cinema italiano, beh, forse è chiedere troppo.