Er Barella, contraddizioni in seno al popolo
È “Ab Urbe Coacta” documentario di Mauro Ruvolo dedicato a un “personaggio” preso dalla strada. Anzi dalle borgate romane: Mauro Bonanni, un ultrasessantenne che potrebbe essere lo stereotipo del coatto, razzista e xenofobo. E infatti lo è, ma poi il suo più caro amico viene dal Benin…
Sulla categoria “non sono razzista ma”, è stato davvero scritto e detto di tutto. Con un giudizio secco: si tratta di xenofobia. Tutta ancora da indagare, invece, un’altra variante: razzisti nel linguaggio – “perché così fan tutti” – ma non nel comportamento.
Un’indagine che, a prima vista, sembrerebbe più facile delle altre: perché la categoria sembra concentrarsi soprattutto a Roma. Nelle periferie romane. Nelle borgate. E questo “lavoro” d’esplorazione lo avvia un documentario, Ab Urbe Coacta di Mauro Ruvolo, in questi giorni in concorso al Torino Film Festival.
Racconta – forse non è il verbo esatto perché presupporrebbe un inizio e una fine, che qui invece non ci sono – un pezzo della vita di Mauro Bonanni, un ultrasessantenne che alla Certosa, poco più in là di Torpignattara, tutti conoscono col soprannome del “Barella”.
Il protagonista potrebbe essere lo stereotipo del coatto romano, più per tradizione che per convinzione. Viene da una famiglia poverissima, quando da queste parti c’erano solo baracche. Ora la situazione è diversa: lui è proprietario di un deposito di sfasciacarrozze. E le cose devono andargli piuttosto bene, visto che quel lavoro gli consente anche di gestire una piccola scuderia motociclistica.
Una delle sue grandi passioni sono infatti le corse di sidecar (l’altra è la squadra della capitale, la Roma, passione che si rivela dai cimeli esposti con orgoglio a casa e al lavoro e dalle magliette che indossa).
Ma a Roma, in quel pezzo di periferia di Roma, il piccolo imprenditore è diverso da tutto il resto del mondo. Barella non ha perso e non perde nulla della sua anima popolare. Divide le sue giornate col Banana ed un altro amico, che ha conosciuto le durezze di Regina Coeli.
E con loro divide una vita fatta di cene decisamente anti-vegane, di passeggiate, di serate a cantare. E per le strade di Certosa condivide anche le battute razziste. “Sti cazzo di negri, stanno tutto il giorno a vende droga… ma quando eravamo ragazzi noi, glie l’avremmo fatta vede…”.
Sembrerebbe il solito, tradizionale disprezzo xenofobo, sul quale si arrovella la politica e la sociologia. Invece, già dalla scena precedente ed in tutte quelle successive ci si accorge che Barella non ha nulla del razzista. Nel suo deposito lavorano due migranti, in regola, perfettamente in regola dal punto di vista contrattuale. Coi quali scherza, più che lavorare.
E ancora. In uno dei suoi tanti spostamenti ci si accorge che – a parte i due sodali della Certosa – il suo più caro amico è un migrante del Benin. Col quale sembra condividere la paura del leghismo.
Mauro Bonanni, con tutti, insomma, sembra comportarsi come un padre. Consigli – spiattellati davanti all’interlocutore col tratto tipico del cinismo romano – ma anche qualcosa di più. O almeno così si deduce dai piccoli colloqui registrati, dove molti migranti lo ringraziano per il sostegno – materiale oltre che umano – ricevuto negli anni passati.
E allora? E allora non c’è sintesi possibile. Ab Urbe Coacta svela solo le contraddizioni, le drammatiche contraddizioni della periferia romana. Dove i criteri d’indagine andrebbero adattati ad ogni singola comunità. Non c’è sintesi possibile perché Barella, nelle lunghe scene finali, sceglie addirittura di andare a trovare il suo amico africano a casa sua, nel suo paese. E ne rimane shokkato, addirittura “schifato” ma anche incuriosito, appassionato. In qualche modo – a suo modo – disponibile a farsi contaminare.
Non c’è “messaggio”, allora, nel documentario. Ci sono solo “tranche de vie” della periferia. Raccontate con la passioni del regista che è anche il nipote del protagonista. E che è anche musicista, montatore, e amministratore di Screen Lab, la società che ha prodotto il documentario.
Volendo, i più tenaci, potrebbero riflettere sullo sfondo che fa intravedere Ab Urbe Coacta. Ma anche per discutere di quell’ambiente occorre avere strumenti non tradizionali. Come ad esempio quando, al deposito, arriva un amico-collega camionista. Viene da San Basilio. Insieme parlano di tutto. Anche di politica. “Negli anni 70’ – dice il camionista – a San Basilio ogni giorno erano botte con la polizia. Il Pci – si capisce, il suo vecchio partito di riferimento, ndr – allora ha chiamato la Dc: mettemose d’accordo. Continuiamo a magnà tutte e due, ma una parte deve arrivare pure alla gente di San Basilio. E così hanno fatte le case. Ora invece se chiamano fra di loro e se ne fregano…”.
A Torpignattara, o più in là, a San Basilio, sembrerebbero dunque aver nostalgia del compromesso storico. Ma non è detto che sia così. Per sapere cosa vogliono occorrerebbero altri strumenti. Quelli attuali non servono.
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