Fatima, le donne invisibili del Maghreb
Alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes il riscatto di un’algerina emigrata in Francia grazie alla scrittura. La storia vera della scrittrice Fatima Elayoubi nel film di Philippe Faucon…
“Sono come un libro. Tutte le donne sono dei libri il cui titolo è il marito. Trovate il tempo per aprire questi libri”. Philippe Faucon, regista di origini marocchine che nel suo cinema ha scandagliato i più variegati aspetti dell’emigrazione magrebina in Francia, il tempo l’ha trovato. Suo, infatti, è Fatima, passato a Cannes nella Quinzaine e liberamente ispirato alla raccolta di testi, Prière à la lune di Fatima Elayoubi (Bachari, 2006).
Non un testo qualsiasi, ma un atto di resistenza e di riscatto di una donna che, venuta in Francia dall’Algeria, è riuscita a vincere quel sesnso di invisibilità che riguarda tantissime immigrate di prima generazione e non. Separata dal marito e con le figlie da mantenere Fatima ha vissuto facendo la donna delle pulizie nelle aziende e nelle case private, senza mai risparmirsi, lavorando con orari flessibili e massacranti. A darle il volto nel film non è un’attrice, ma una migrante algerina come lei, Soria Zeroul, anche lei “femme de ménages” in una banca. Anche lei con pochissime parole di francese a disposizione a rendere ancora più pesante il senso di invisibilità e di impotenza. Fatima si ammazza di lavoro, giorno e notte, proprio perché le sue figlie non si trovino a ripetere la sua vita. La più piccola, però, in piena crisi adolescenziale, della scuola non vuole saperne, il francese lei lo parla benissimo e lo usa spesso anche per umiliare sua madre. La più grande, invece, non smette mai di studiare – fa medicina all ‘università – perché sa bene i sacrifici compiuti della donna. Insieme le vediamo nel loro quotidiano, discutere e scontrarsi anche se Fatima ha per loro sempre una parola di conforto. Finché un giorno, un incidente sul lavoro, costringe la donna a letto. Ma sarà proprio quell’immobilità ad avvicinarla alla scrittura, nella sua lingua, l’arabo, accompagnandola in un percorso di liberazione. Dai ritmi lentissimi e dall’interpretazione monocorde della protagonista, il film soffre di numerosi momenti di stanchezza, soprattutto nella sceneggiatura. Non riuscendo a trasmettere neanche l’emozione del riscatto finale. Peccato.
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.
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