Tutta l’umanita nel “buco”. Una distopia che parla dell’oggi su Netflix

Su Netflix, Il buco, lungometraggio d’esordio del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, premiato a Toronto 2019. Una cupissima distopia (venata di horror) ambientata in una prigione verticale dove il cibo è distribuito in modo ineguale dai piani più alti ai più bassi. Pur tra debiti con precedenti esempi dello stesso genere, il film lascia il segno con una cruda ed efficace allegoria sui paradossi della (nostra) società classista: un apologo che, nella crisi di oggi, risulta tanto più attuale e inquietante. In cui spunta anche “Il Don Chisciotte” …

è il libro che Goreng sceglie di portarsi dietro nel “buco” come unico oggetto

«Ci sono tre tipi di persone: quelle di sopra, quelle di sotto e quelle che cadono». Eccola, la gerarchia de Il buco (El hoyo, in originale), eccola la divisione in classi, nuda e brutale come questa distopia (venata di horror) con cui il regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia ha esordito nel lungometraggio, conquistandosi il premio del pubblico (sezione “Midnight Madness”) al Festival di Toronto 2019 e, nella fase più dura del lockdown, un boom (non casuale) di visualizzazioni su Netflix (dove il film è disponibile dal 20 marzo).

Ma che cos’è, “il buco”? Chi lo dirige? Perché ci sono rinchiuse dentro tante persone, a cominciare dal protagonista Goreng (Iván Massagué)? Le domande sono tante, ma più che le risposte conta il (dis)funzionamento della macchina: una struttura verticale dove gli ospiti sono distribuiti a coppie fra le centinaia di piani-celle. Al centro, il “buco” attraverso cui ogni giorno viene fatta passare, di piano in piano, una piattaforma con il cibo. Che basterebbe per tutti, se chi si trova più in alto non mangiasse troppo: lasciando stoviglie vuote a quelli più in basso, condannati alla fame (o a divorarsi a vicenda).

Non è la prima volta che la fantascienza (non solo) cinematografica offre allegorie con sofisticate ed enigmatiche prigioni (viene in mente, su tutti, Il cubo), e già in passato le distopie hanno aggredito apertamente le diseguaglianze sociali: pensiamo, di recente, a Snowpiercer, del premio Oscar Bong Joon-ho, dal graphic novel Le Transperceneige, che dal 25 maggio ha debuttato anche come serie tv (sempre su Netflix). Ma la forza specifica de Il buco, pur tra debiti con i suoi predecessori, sta nella capacità (grazie anche alla sceneggiatura di David Desola e Pedro Rivero) di rapprendere in significanti di notevole efficacia i termini del discorso. Al punto da guadagnare, nell’eccezionale fase che abbiamo recentemente vissuto, ulteriore pregnanza e attualità.

Sembra una visione apocalittica partorita dalla (vera) quarantena, Il buco: non solo e non tanto perché abbiamo persone forzate per mesi in uno spazio chiuso. Ma perché, come la pandemia sta facendo (tragicamente) nel mondo reale, questo horror distopico spariglia le sovrastrutture del (nostro) presente, restituendo tutto (visivamente e concettualmente) alla sua spietata essenza materiale (e materialistica). Corpi, pareti, beni “necessari” (ognuno può tenere nel “buco” un solo oggetto personale), cibo. Soprattutto cibo.

In quella tavola imbandita, composta dai piatti preferiti di ciascun ospite (preparati meticolosamente in una cucina degna di MasterChef), ridotta nella discesa quotidiana ad avanzi sempre meno commestibili, sta il paradosso di un sistema che l’evento eccezionale esploso (nel frattempo) fuori dalla fiction va svelando (anche e soprattutto nelle conseguenze socio-economiche) tanto più come insostenibile.

Così come pare scritta per l’oggi (dove l’emergenza vanifica ogni presunzione di estraneità del mondo “più ricco” alle catastrofi della Storia) la regola del “buco” per cui ogni ospite è trasferito di mese in mese da un livello all’altro: si può passare dai privilegiati “piani alti” alla disperazione dei bassi, in modo (apparentemente) casuale. Non sarebbe allora tanto più conveniente per tutti razionare in modo equo le risorse a disposizione? La risposta, fatalmente, è scontata solo in teoria.

Fuori dalla gabbia-incubo intravediamo una società (ancora) grottescamente schizofrenica, schiava del consumismo e affidata (ipocritamente) a una presunta “solidarietà spontanea” che dovrebbe sorgere tra gli esseri umani. Ce lo fanno intuire, rispettivamente, alcuni emblematici personaggi di contorno: Trimagasi (Zorion Eguileor), che esprime più di tutti la vena sottilmente e crudelmente ironica del film (memorabile il monologo sugli spot di coltelli), e Imoguiri (Antonia San Juan), impiegata della misteriosa “Amministrazione” che gestisce la struttura.

Il buco, allora, appartiene all’ormai nutrita schiera dei film di genere contemporanei impegnati a gridare l’allarme sociale, politico e culturale ormai ineludibile. Grido che, stavolta, è in forma di apologo (per stomaci forti, ma non per questo meno lucido) sulla (in)sufficienza della nostra libertà per attuare il non più derogabile cambiamento. E che, nella parabola del suo disperato e insanguinato Don Chisciotte (il libro di Cervantes è l’oggetto portato dal protagonista), prova a suggerire una problematica pars construens: fondata sulla necessità di calarsi, sino in fondo, nell’abissale rimosso del sistema, per riportare su (forse) un frammento di alternativa.