Il cielo stellato sopra di noi. George Clooney alla prova della sci-fi (filosofica) su Netflix
Tra i titoli natatalizi (e più gettonati) di Netflix l’atteso “The Midnight Sky”, nuovo ritorno alla regia di George Clooney ispirato al libro rivelazione dell’americana Lily Brooks-Dalton, “La distanza tra le stelle” (Nord, 2017). Il suo scienziato è il testimone di una generazione che ha lavorato per dare un futuro all’umanità, ma troppo in ritardo. L’ambientalismo è già sconfitto all’inizio del film. Nessuna pretesa di competere con la sci-fi spettacolare di tanto cinema. La sua è un’avventura sì, ma umana, solitaria, dolente e oscura …
Folta barba da patriarca biblico, chioma rada e canuta, volto scolpito di rughe e il fisico prosciugato di chi per il ruolo ha perso 14 chili, così di furia da procurarsi una pancreatite non ancora guarita: non ha ancora 60 anni, George Clooney, ma ha dismesso senza rimpianti quel sex appeal così irresistibile per le platee femminili.
Altri leggendari rubacuori dello schermo, non meno intelligenti e impegnati di lui – Richard Gere e Robert Redford, per dire – avevano doppiato quello spartiacque anagrafico senza rinunciare alla piccola vanità di un fascino a prova di età.
Il film della liberazione da un cliché sempre mal digerito è The Midnight Sky, diretto, prodotto e interpretato da Clooney nel segno di una sci-fi che mira meno a stupire con gli effetti speciali che a irrobustire una coscienza ecologica colpevolmente distratta. Tratto dal bestseller di Lily Brooks-Dalton, Good Morning, Midnight (La distanza tra le stelle, Nord, 2017) è su Netflix dal 23 dicembre.
Il pianeta Terra è quello di un ipotetico 2049, ma parlare di fantascienza, distopia e film post-apocalittico sarebbe fuorviante. Il suo scienziato Augustine Lofthouse, condannato da un tumore e in marcia su una banchisa polare che cede a ogni passo, è piuttosto il testimone di una generazione che ha lavorato per dare un futuro all’umanità, ma troppo in ritardo. L’ultimo viaggio, filosoficamente (e kubrickianamente), collega il passato al futuro, la storia personale di un astrofisico sconfitto a una nuova Genesi possibile altrove, affidata a simbolici Adamo ed Eva.
Nessuna pretesa di competere con la sci-fi spettacolare di tanto cinema: non è un sottoprodotto mal riuscito, a corto di mezzi. È come se Clooney, deviando per questa sua settima regia dai binari battuti tra politica e commedia, scegliesse di collocarsi a metà strada tra Gravity e Solaris, i film di Cuaròn e Soderbergh in cui ha recitato.
Avventura sì ma umana, solitaria, dolente e oscura. Ci sono rimpianti e sensi di colpa che si materializzano in una compagna di viaggio bambina dal nome che ha (rivelerà) un significato speciale: Iris.
L’ambientalismo è già sconfitto all’inizio del film, quando il Barbeau Observatory isolato tra i ghiacci viene evacuato in seguito a un’oscura quanto definitiva catastrofe planetaria. L’autodistruzione dei terrestri è arrivata all’ultimo atto.
Clooney-Augustine, malato terminale, sceglie di non unirsi all’ultima scommessa di sopravvivenza, che si immagina sotterranea e disperata. È stato lui, in gioventù, a individuare in un satellite di Giove, K23, condizioni adatte alla vita umana. Un’astronave inviata a esplorarlo due anni prima è sulla via del ritorno. Ma i contatti con la Terra si sono di colpo, e inspiegabilmente, interrotti.
Le sole scene “spaziali” del film coinvolgono i cinque membri dell’equipaggio: la vitale Felicity Jones (La Teoria del Tutto), che aspetta un figlio da Ade (David Oyelowo, quello di Selma- La strada per la libertà), la giovane Maya (Tiffany Boone), che è la meno rodata, e i veterani Mitchell (il Kyle Chandler di Catch 22) e Sanchez (Demiàn Bachir). L’ultima missione che Augustine assegna a se stesso è quella di raggiungere la più potente stazione dell’Artico, deserta ma ancora attiva, per avvertirli: la vita sulla Terra è condannata senza speranza.
Bizzarramente programmato per questo Natale casalingo da Covid, The Mitnight Sky è un film malinconico e desolato, in cui gli immensi silenzi parlano attraverso le note di Alexandre Desplat. E non consola sapere che la paralisi da pandemia planetaria ha parzialmente ridotto, nel 2020, le emissioni di CO2: ci vuol altro, lo sappiamo bene, per invertire la rotta. “Non siamo stati molto bravi a custodirvi casa mentre eravate via”, dice mestamente Clooney agli astronauti.
Evitando di spoilerare, vi invito solo a notare che la nuova Genesi sarà emblematicamente nel segno dell’uguaglianza razziale. Clooney non è mai un regista per caso, né un produttore per caso. Da produttore ha esordito con un acrobatico esperimento di fiction girato in simultanea per la tv e diretto da Stephen Frears, A prova di errore. Da regista ha rivelato un talento senza ostentazione, mai ossequiente al mercato, controcorrente fino dall’opera prima, Confessioni di una mente pericolosa. Non ho mai perdonato alla Mostra di Venezia quel Leone d’oro mancato al suo Good Night, and Good Luck. Ricordo ancora il fair play con cui accettò la Coppa Volpi per il suo protagonista.
Il mai amato scettro di People, quello di “the sexiest man in the world”, è definitivamente consegnato agli archivi. E sommessa e privata com’è, la sua simil-fantascienza ecologica viaggia ancora e sempre, ostinatamente, contromano.
Teresa Marchesi
Giornalista, critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come Inviato Speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, "Effedià- Sulla mia cattiva strada", su Fabrizio De André, premiato con un Nastro d'Argento speciale e "Pivano Blues", su Fernanda Pivano, presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.
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