Il fascismo che non muore. “La lunga notte del ’43” capolavoro di Vancini (Bassani) è il nostro 25 aprile

Disponibile su RaiPlay il folgorante esordio di Florestano Vancini del 1960: “La lunga notte del ’43” dall’omonimo racconto di Giorgio Bassani, parte della raccolta “Cinque storie ferraresi”. Drammatico affresco di provincia (Ferrara) ai tempi della nascente Repubblica di Salò, con le bande repubblichine stragiste e i loro gerarchi impuniti, pronti a riciclarsi nell’Italia del dopo guerra. Una riflessione attualissima su quanto fascismo ci siamo portati dietro da allora e continua ad accompagnarci. La nostra proposta per il 25 aprile …

Il ghetto ebraico nel cuore del centro storico, il ruolo e le carriere di gerarchi di provincia il cui prototipo fu Roberto Farinacci, il Ras di Cremona, l’atmosfera plumbea delle leggi razziali ben descritta ne Il giardino dei Finzi Contini, film che Vittorio De Sica trasse dall’omonimo libro di Giorgio Bassani: poche città come Ferrara rappresentano così bene gli elementi essenziali del fascismo in Italia.

Tutti elementi, e altri ancora di più stretta attualità, che si ritrovano in quell’autentico capolavoro presente su Raiplay che è La lunga notte del ’43, film d’esordio di Florestano Vancini, scritto dallo stesso regista insieme a Ennio De Concini e Pier Paolo Pasolini.

Film in bianco e nero del 1960 – anch’esso tratto da un racconto di Giorgio Bassani – che invitiamo a vedere e rivedere in occasione del 25 aprile, perché pochi altri come questo rendono l’idea di cosa ha significato il ventennio in Italia, soprattutto in provincia, ripropongono con altrettanta efficacia il clima di quegli anni tra bande repubblichine che agiscono impunite e primi nuclei di resistenza che si organizzano, e soprattutto ci fanno riflettere su quanto fascismo ci siamo portati dietro da allora e continua ad accompagnarci in quest’epoca così complicata.

Merito di una sceneggiatura e di una regia che innescano una storia torbida di tradimento e adulterio in una trama che nel libro di Bassani aveva privilegiato l’aspetto politico e la cronaca di una strage efferata. Senza però nulla togliere alla descrizione degli albori di una guerra civile il cui esito avrebbe determinato il futuro del paese, e anzi facendo coincidere le sorti personali e quelle collettive in modo da accentuare la forza e la drammaticità degli eventi.

In breve la trama del film che molti sicuramente conoscono. Il farmacista Pino Barilari, interpretato da un giovane Enrico Maria Salerno, è infermo a causa di un’infezione venerea contratta durante la marcia su Roma (“un fascista non può non andare a donne”! lo aveva convinto il perfido amico squadrista Carlo Aretusi) e passa le giornate a osservare dalla finestra della sua abitazione ciò che accade nella via sottostante.

La giovane moglie Anna lo tradisce con Franco Villani, figlio di una famiglia antifascista, interpretato da Gabriele Ferzetti. A vestire i panni di Anna è un’attrice quasi dimenticata che ebbe una stagione breve e poco fortunata nel cinema italiano, Belinda Lee. Sono i tempi della nascente repubblica di Salò e del nuovo Partito fascista che si ricostituisce a Verona. Il dramma avviene quando Aretusi, detto “Sciagura”, incarica un sicario di uccidere il federale Bolognesi per prenderne il posto. Vale la pena ricordare che il ruolo di “Sciagura” fu interpretato, magistralmente, da Gino Cervi, il quale rischiò di compromettere l’immagine bonaria che si era costruito con il personaggio di Peppone, sindaco comunista rivale e amico di Don Camillo (Fernandel) nella fortunata serie televisiva ispirata dai libri di Giovanni Guareschi, trasmessa in Italia negli ’50 e ’60. Immagine bonaria che poi Cervi si riconquistò interpretando il commissario Maigret in un’altra fortunata serie tratta dai libri di Georges Simenon, che andò in onda dal ‘64 al ‘72.

Dunque, Aretusi pensa di far ricadere la colpa del delitto sugli antifascisti e non fatica a trovare i vendicatori nelle squadracce fasciste che calano in città da Verona e da Padova. Nella notte fra il 14 e il 15 dicembre, mentre Anna si trova in casa dell’amante, gli squadristi irrompono nelle abitazioni a prelevare gli uomini più rappresentativi dell’antifascismo, fra cui il padre di Franco.

Su ordine di Aretusi, undici persone vengono fucilate all’alba davanti al muretto del Castello Estense, in Corso Roma, proprio sotto le finestre dell’insonne Barilari che, non visto, osserva quanto sta avvenendo giù in strada. L’episodio si ispira a un fatto realmente accaduto e identico nella dinamica, come riporta la lapide coi nomi dei caduti (tra questi un ignaro testimone che stava recandosi in bicicletta al forno in cui lavorava) posta nel luogo in cui fu perpetrato l’eccidio. E colpisce davvero il fatto che ancora oggi vi sia una farmacia davanti al muretto, con una sovrastante finestra dietro la quale si può immaginare l’ombra di Barilari.

Il fattaccio costituirà il punto di svolta nelle vite dei protagonisti del film che, dopo averne in breve decretato le sorti, cambia totalmente scenario. Sono passati quasi vent’anni e, nell’estate del 1960, Franco Villani torna in città con il figlio e la moglie conosciuta in Svizzera. A un certo punto scorge Aretusi seduto al bar nella piazza inondata di sole, e ha con lui un breve scambio di battute. Alla moglie che gli chiede chi sia quell’uomo a cui ha stretto la mano come a un vecchio conoscente risponde così: “Era una specie di gerarca fascista, ma non credo che abbia mai fatto niente di male”.

Di male ne aveva fatto eccome ma, come molti della sua specie, era riuscito a farla franca e ora si riciclava nella nuova Italia che stava per conoscere gli anni del boom. Il trasformismo è duro a morire e sembra appartenere all’anima stessa di questo paese. Ma è proprio questo che ha evitato a molti di fare i conti con il proprio passato, e all’Italia di dichiararsi fuori pericolo una volta per tutte.