Il funerale di Stalin che spettacolo! Loznitsa torna a “smontare” il regime con le sue stesse immagini
Il regista ucraino Sergei Loznitsa torna a Venezia Fuori concorso con “State Funeral“. Antisovietico militante e critico della Russia di oggi, attraverso filmati d’archivio – in parte inediti – ricostruisce in 135 minuti le esequie di Stalin nel’53. “Una visione terrificante e grottesca che rivela l’essenza del regime”, sostiene. Ma anche la riflessione sulla natura di un culto: perché il senso di questo cinema è mettere in dubbio la politica attraverso la sua stessa immagine…
Ormai lo conosciamo, Sergei Loznitsa. Il cineasta ucraino si è imposto negli ultimi anni col suo cinema anti-sovietico, critico sulla Russia di ieri e oggi: l’anno scorso ha portato al Lido il “quasi documentario” Process, la ricostruzione di un processo farsa staliniano – ovviamente non filmabile -, una storia vera in un documentario finto.
A ritroso, ha inscenato l’Ucraina odierna calpestata dalla Russia in Donbass. Ha sondato la nostalgia comunista con Victory Day, documentario nel e sul Treptower Park di Berlino, tra i sostenitori del socialismo. Nel suo gesto cinematografico maggiore, Austerlitz, ha inquadrato (e quindi discusso) i selfie dei turisti nel campo di sterminio.
Loznitsa torna al Festival di Venezia e punta ancora Iosif Stalin, ma stavolta più in alto: State Funeral inscena il suo funerale. Nei 135 minuti dell’opera presentata Fuori concorso, infatti, si inquadrano frontalmente le esequie dopo la morte del dittatore, il 5 marzo 1953: filmati d’archivio peculiari, in parte inediti, compongono il quadro della sepoltura che costruisce “lo spettacolo del funerale”, come lo chiama il regista. Decine di migliaia di persone seguono la cerimonia, malgrado l’autoritarismo del regime, in un atto che fa da sigillo finale al culto della personalità stalinista.
I funerali di Stalin erano già stati filmati ne Il Grande Addio di Dziga Vertov, Mikhail Caureli e Serguei Guerassimov, documentario di 70 minuti che prende il titolo dalla nota definizione della Pravda (che così nominò le esequie del leader), per cinquant’anni inedito in Italia e trasmesso da Fuori Orario di Enrico Ghezzi nel 2003. Valga come esempio il finale, chiusa la cerimonia, con le riprese di vasti cantieri in costruzione e operai al lavoro: “Nessuna forza al mondo potrà fermare l’inevitabile avanzata della società sovietica verso il comunismo”.
Ebbene, Loznitsa rovescia quella concezione, d’altronde la posizione dell’autore è chiara: “Per me è fondamentale condurre lo spettatore in questa esperienza non come imparziale osservatore (…), bensì come partecipante e testimone di uno spettacolo grandioso, terrificante e grottesco, che rivela l’essenza di un regime tirannico”.
E ancora: “È impensabile che oggi, nella Mosca del 2019, sessantasei anni dopo la morte di Stalin migliaia di persone si riuniscano il 5 marzo per deporre fiori e piangerlo”.
Ma è anche, questo film, “uno studio visivo sulla natura del culto” e “un tentativo di smontare il rituale”. Attraverso l’immagine: perché è questa la vera sostanza del cinema di Loznitsa, regista schierato e oggi amato dai festival occidentali (anche) perché critico verso la Russia.
State Funeral si apre con la bara rossa di Stalin che passa tra la folla: assistiamo all’annuncio del decesso, diffuso dai megafoni in tutta l’Unione sovietica nella retorica del regime, “non vedremo più il suo bellissimo viso”, si dice. Guardiamo la folla dei piangenti, le file alle edicole per comprare i giornali, ma subito si insinua il dubbio: le prime pagine sono tutte uguali, ognuna ha la stessa foto, c’è una sola versione per salutare “il grande leader”. Loznitsa al solito non interviene mai: si limita a mostrare, il giudizio viene affidato al nostro sguardo. È la cabina di montaggio che rende il materiale significativo e costruisce il suo senso. Così lo spettacolo va in onda.
La messa in dubbio del regime avviene sempre dentro l’inquadratura. Mai con le parole, bensì con le armi della messinscena e del montaggio documentario (e non è forse, questa, una tradizione russa?). La sua operazione ricorda l’Autobiografia di Nicolae Ceausescu di Andrei Ujica: il quale, seppure da vivo, smontava un dittatore con le sue stesse immagini e parole, dirigendone appunto la “autobiografia”.
Qui non c’è biografia di Stalin, ma la registrazione della sua morte e quindi le conseguenze su un popolo mostrandone il comportamento, indotto da decenni di governo: la liturgia di regime vista come una grande messa in scena. In generale, comunque la si pensi, la pratica di criticare la politica attraverso le sue stesse immagini si impone come essenziale, soprattutto qui e ora, nel nostro tempo e luogo: in questo l’antirusso Loznitsa risalta.
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