La Costa Azzurra non è una vacanza. I due fratellini in fuga dal nazismo

In sala dal 18 gennaio (per Notorious Pictures), “Un sacchetto di biglie” di Christian Duguay dal romanzo autobiografico di Joseph Joffo (Bur/Rizzoli), sull’infanzia di due fratellini ebrei parigini che il papà farà scappare nel Sud della Francia per metterli in salvo dalle persecuzioni naziste. Ottimi la fotografia, le ricostruzioni e gli interpreti. Ma forse c’è da riflettere sull’uso commerciale e insistito della Shoah…

Ti piace vincere e piangere facile? Metti due fratelli preadolescenti ebrei durante la Seconda guerra mondiale, separali dai loro genitori perseguitati dalla Gestapo a Parigi sotto occupazione tedesca, e poi falli ricongiungere a ciò che resta della famiglia a guerra finita.

È proprio quello che fa il film franco-canadese-boemo diretto da Christian Duguay, Un sacchetto di biglie, distribuito in Italia dalla Notorious Pictures a partire dal 18 gennaio, tratto peraltro da una storia vera già raccontata nell’omonimo romanzo di Joseph Joffo (Bur/Rizzoli) e che aveva già avuto una riduzione cinematografica nel 1975 ad opera di Jacques Dillon.

Siamo dunque nella Parigi occupata, quando la persecuzione antiebraica è già nell’aria ma la caccia all’uomo non è ancora iniziata. Il padre dei due ragazzini svolge onestamente il lavoro di barbiere nel quartiere ebraico della capitale francese ma, temendo per la sorte dei propri figli, decide di trasferirli a Nizza, dove poi li raggiungerà insieme alla madre dopo avere sistemato alcune faccende.

Il viaggio in treno si trasforma in un incubo perché il convoglio viene perquisito dai tedeschi in cerca di ebrei, e i due ragazzini riescono a cavarsela fortunosamente grazie alla presenza di spirito di un sacerdote. Dopo una fuga avventurosa per le montagne raggiungono infine Nizza, dove riescono a rivedere gli altri due fratelli maggiori e i genitori prima che le persecuzioni siano estese anche al Sud della Francia.

Da qui iniziano altre peripezie, che condurranno i due, lasciati soli ancora una volta, da un collegio a una famiglia di collaborazionisti disposta ad accogliere uno di loro in un piccolo centro della Provenza, mentre l’altro trova lavoro nei pressi (le riprese sono state fatte a Nizza, Briga Marittima, Avignone e Marsiglia). E qui, in attesa della liberazione, i due protagonisti avranno modo di saggiare il proprio coraggio e sangue freddo in più di un’occasione, assieme a una inossidabile solidarietà fraterna che li condurrà a una precoce e sofferta maturazione, politica e umana.

Che la storia sia autentica non c’è dubbio, ed è confermato dall’ultima inquadratura che ci mostra i due protagonisti ancora vivi e vegeti nella Parigi dei giorni nostri. Va detto anche che il film si lascia vedere dall’inizio alla fine, poiché tocca temi sensibili – come sempre del resto quando di mezzo c’è la Shoah –, e affronta seppure di striscio temi poco conosciuti in Italia o dimenticati, su cui vale la pena tornare per non perderne la memoria: la lacerazione di un paese diviso in due tra zona occupata e zona libera, il ruolo dei collaborazionisti e delle milizie fasciste, la resistenza francese e così via.

Resta però il dubbio sui veri obiettivi di un’operazione che non aggiunge nulla di nuovo, e anzi fa riflettere sull’uso commerciale e insistito della Shoah, pigiando l’acceleratore sulle corde emotive – bambini e famiglie perseguitate: come restare impassibili? – e privilegiando le leggi dello spettacolo su ogni altro tipo di considerazione.

Il regista Duguay, già noto in Italia per Belle & Sebastien (2015), lavora di fino sui primi piani e le inquadrature per accrescere la tensione, supportato da un’ottima fotografia e da una ricostruzione accurata degli ambienti esterni. Tutti bravi gli attori, con menzione particolare dei comprimari, il prete, l’ufficiale nazista, il padre della famiglia collaborazionista che ospita uno dei due ragazzini, quello più incline alle lacrime, senza peraltro conoscerne la condizione di ebreo. Da non dimenticare i fazzoletti per le scene finali.