La domenica sportiva di Neri Marcorè. Con “Zamora” il suo esordio alla regia in omaggio ai ’60
In sala dal 4 aprile (per 01) “Zamora”, esordio alla regia di Neri Marcorè. Tratto dal romanzo omonimo del giornalista sportivo Roberto Perrone (HarperCollins), il film è una commedia dai toni leggeri. Quasi una dichiarazione d’amore al calcio e agli anni ’60, ma non va mai più in là della sua cornice. Presentato al Bif&st 2024 …
È un inno al calcio che fu, o almeno vorrebbe esserlo, l’esordio dietro la macchina da presa di Neri Marcorè, popolare attore, imitatore, doppiatore, conduttore tv e cantante. Il titolo, Zamora, ai più appassionati già faceva intuire qualcosa, rievocando lo spettro del leggendario portiere spagnolo degli anni ‘30. Ma non era necessario essere appassionati di pallone, bastava anche solo la lettura del romanzo omonimo di Roberto Perrone, in libreria per HarperCollins (già Garzanti), a cui il film è dedicato, oltre che ispirato.
Siamo negli anni ‘60, gli anni dell’infanzia per Perrone. Forse è questo il debito più tenero del film con il libro, oltre che il più sincero. Si legge, tra le luci calde con cui Marcorè fa ammantare le case e i locali, la nostalgia impossibile per quegli anni mai vissuti (il regista è nato nel ‘66) e per i loro riti: vedere Rischiatutto nella casa dell’unica famiglia con la televisione, andare a telefonare al bar.
Soprattutto, però, il calcio. Anzi, il “folber”, storpiatura lombarda di football. È la religione professata in azienda, dove si annovera Helenio Herrera, storico allenatore dell’Inter, tra i valori cardine della società. Il giovedì il grande appuntamento è la partita scapoli-ammogliati, a cui il nostro protagonista, un giovane ragioniere di Vigevano, deve controvoglia prestarsi, pur non sapendo un bel nulla di pallone. Gli tocca, peraltro, anche il ruolo più ingrato: il portiere.
Ma oltre a questa dimensione a metà tra il comico e il goliardico, ce n’è un’altra, un poco più profonda. Vale a dire la rievocazione di un momento in cui il calcio era un sottofondo più genuino alla vita di una città, piccola o grande che fosse. Anche più umano, quantomeno nei suoi interpreti. Il ragioniere in difficoltà cerca infatti conforto andando a ripescare un tal Cavazzoni, ex portiere di fama e oggi alcolista incallito, una parte che Marcorè ritaglia per se stesso.
Si percorrono poi binari già visti. La redenzione del protagonista, che da scarso si fa campione grazie agli insegnamenti del mentore. Il bullismo un po’ facilotto dei colleghi, specie un improbabile antagonista. E infine la conquista amorosa, su cui la trama si concede l’unico guizzo, discostandosi da un finale telefonato (ma che, per imponderabili ragioni, ci rivela già nel suo poster).
Zamora è insomma un film senza particolari guizzi. Affonda bene nella sua atmosfera, ma non aggiunge granché in più con il suo intreccio. Evita con cura gli argomenti scabrosi: una coppia sposata che si separa viene risolta senza cenni alla legge inesistente, a metà anni ‘60, sul divorzio; il simpatico cummenda a capo dell’azienda incassa sempre più e ai dipendenti redistribuisce solo fotografie autografate, ma nessuno ha da ridire.
Ci si obietterà che da una commedia non si può pretendere un film storico e politico. Eppure, di commedie geniali che non anestetizzano la loro cornice ce ne sono, e parecchie. Un piccolo sorriso lo strappa l’omaggio, nel finale, a Davide Ferrario. Ma nulla più. In sala, dove arriverà dal 4 aprile, passato per il concorso del Bif&st, potrebbe trovare un buon pubblico.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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