La rabbia di Giorgia negli anni ribelli

L’autrice de “La mia generazione” suggerisce il romanzo “La rabbia che rimane” di Paolo Di Reda. Una intensa storia al femminile a cavallo tra i 60 e i 70, tra le battaglie di studenti e operai, delle stragi, della repressione e della lotta armata. “Perché al cinema di storie di donne si sente la necessità”…

Questo libro è proprio un film

Ci sono periodi come quello a cavallo tra i ’60 e i ’70 che non si esauriscono mai. Un momento di storia ancora pieno di vuoti ombre dolore, e chi si azzarda a scrivere quei fatti ha coraggio perché incontra ferocia, sguardi ipercritici, giudizi taglienti. Quella è roba che scotta ancora.
In una Roma dipinta dal cinema migliore, quello dei primi ’60, nell’ambiente dei costruttori che l’hanno resa enorme in quel clima di Boom che ha concesso tutto, si compie lo stupro di un uomo adulto e potente. La ragazza che lo subisce sceglie di partorire il figlio che da quel giorno si porta dentro e resta sola, privata della famiglia ricca che vorrebbe sistemare l’evento più brutale del mondo nel solito modo. La giovane pariolina, si diceva così e forse si dice ancora, si rifugia presso una nonna evoluta e partorisce in un luogo affettuoso ma la maternità non stempera la rabbia che ha in corpo.
Con un evento durissimo, di solito è buon segno, comincia la storia di Giorgia e suo figlio Andrea in La rabbia che rimane di Paolo Di Reda, in un periodo che poco dopo sarà affollato di figli senza padre, di risveglio di identità, di bisogni e desideri urlati.
Un arco narrativo lungo, negli anni delle lotte di studenti e operai che hanno segnato il passaggio del paese, più ancora dello sviluppo economico ma anche grazie a quello, da luogo delle campagne con le lucciole a nazione politicamente avanzata. Con una scuola eccellente, una sanità buona, una cultura perennemente dissenziente.
Qualcuno dirà che non è vero, forse anche lo stesso autore ma quando si parla di quel periodo, è fatale discutere. E meno male!
Ma la rabbia non può essere assoluta, è un’emozione selvaggia che chiede ragionamento idee pensiero. E l’autore mantiene uno sguardo distante, schiva la retorica e si avventura in una narrazione di eventi che rotolano senza sosta, i fatti si accavallano l’uno sull’altro: le stragi, la repressione, la lotta armata. E la droga, l’ultimo crudele regalo di quegli anni partiti con le migliori intenzioni. Senza distaccarsi mai dai protagonisti, dalle loro emozioni, chi scrive lascia sempre a casa la sociologia e tratteggia i personaggi con cura, ce li fa amare e riconoscere, induce all’identificazione. La storia e i fatti di Stato, entrano e escono dalle vite dei protagonisti come fondali mobili senza mai schiacciare la personalità dei personaggi. Il racconto si fa avvincente perché non tradisce mai l’umanità di chi lo vive.
È una storia intensa quella di Giorgia perché nessuno le ha fatto sconti e si è dovuta guadagnare la vita con unghie denti e passione. E di storie di donne si sente la necessità perché troppo spesso latitanti. Un’avventura che vorremmo vedere al cinema o almeno in quella tv che continuiamo a desiderare quando le serie europee e americane ci stupiscono di godimento.