Luisa Bonfanti, una Forrest Gump tra cinema, utopie e delusioni. Continua la corsa sulle piattaforme

Dal 29 novembre  “La vera storia di Luisa Bonfanti” è disponibile su Amazon Prime, Cecchi Gori TV e Chili. Il regista Franco Angeli adatta la sua omonima pièce e propone un racconto dell’Italia e del suo cinema dalle lotte degli anni ’60-’70 alla crisi degli anni ’80. Un’immaginaria attrice (Livia Bonifazi) come una sorta di Forrest Gump, da comparsa, attraversa correndo quel cinema e quell’epoca con la loro stessa velocità inquieta e irriverente. Tra finzione fuori dagli schemi e materiali dell’archivio AAMOD, un ritratto ironico e amaro delle utopie e delle contraddizioni di un’epoca ancora capace di produrre “folgorazioni”…

È La vera storia di Luisa Bonfanti quella che ci racconta il film omonimo scritto, diretto e montato da Franco Angeli, prodotto da Giampiero Preziosa e Marco S. Puccioni  per Inthelfilm (in collaborazione con AAMOD e Fondazione Annamode) e tratto dall’omonima pièce dello stesso Angeli (che debuttò nel 2001), parte del progetto teatrale di Ettore Scola “Il Piccoletto di Roma”. Ma chi è Luisa Bonfanti?

È stata un volto del grande cinema italiano tra gli ani ’60 e ’70, anche se mai baciata dalla notorietà di una diva. È stata un’attrice porno dei primi anni ’80, con lo pseudonimo di Lucy Fox. È stata una figlia delle borgate romane quando ancora queste ispiravano la poetica di Pier Paolo Pasolini, una donna militante e innamorata in un periodo dove la Storia (in Italia e non solo) sembrava procedere in avanti, verso un diverso modo di concepire la società e la vita. È stata, infine, una donna infelice, delusa, sola, morta a 36 anni il 10 giugno 1984, poche ore prima di Enrico Berlinguer, dopo essersi sparata un colpo di pistola nella stanza di una pensione, come sappiamo dall’inizio del film.

Luisa Bonfanti è un personaggio immaginario, eppure vero(simile). Perché una Luisa Bonfanti avrebbe potuto essere, forse è stata, certamente diverse donne di allora sono state un po’ lei. E perché veri sono i frammenti, nomi, titoli che ne compongono il ritratto: immagini di repertorio, sequenze reali o presunte di film, testimoni veri e straordinari della galassia di politica e celluloide che fu, come i registi Ettore Scola e Citto Maselli – esilaranti nello stare al gioco -, il capogruppo Antonio Spoletini, il sindacalista Otello Angeli nonché padre dell’autore.

È Luisa Bonfanti, nella parabola ipotetica del lungometraggio che la ricorda, ad aver preso gli “sganassoni” dal geloso Marcello Mastroianni al posto di Monica Vitti in Dramma della gelosia. O ad aver interpretato la compagna dell’attivista accusato dell’omicidio di Florinda Bolkan in una sequenza tagliata di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.

È lei, insomma, la Forrest Gump di quel cinema e di quell’epoca: perché, da comparsa, li ha attraversati correndo, con la loro stessa velocità inquieta e irriverente. Ma, più che incidere su di essi come il giovane fuori dal comune di Tom Hanks, Luisa, donna comune ancorché irripetibile nella sua disperata unicità, ne è stata incisa. “Folgorata” (come dice lei stessa) ancora ragazzina, sul piano esistenziale e politico, dall’incontro con la troupe di Accattone, ha seguito, assorbito ed espresso le vicissitudini di un Paese e di un’industria, in una parabola di evoluzione, lotta e conquista che si è fatta involuzione, resa e nuova espropriazione.

Dalle battaglie per il divorzio, i diritti sul lavoro e l’autodeterminazione dei popoli tra Vietnam e Cile, all’acquitrino del craxismo e del tele-edonismo alienante (già berlusconiano). Dalle utopie dell’arte e dei sessi liberati alla loro parodia nel neocapitalismo alienante che fa dei corpi il primo oggetto di consumo. La morte di Luisa è lo sprofondare di un’Italia a cui viene tolto (o da cui è migrato) il vocabolario stesso per significare un’alternativa: «Come si dice quando si vuole dividere equamente il lavoro e la ricchezza prodotta? Comunismo? Che brutta parola!».

Quello di Franco Angeli (già regista, tra gli altri, de La rentrée, I Kindeswhol- il bene del bambino, il doc collettivo Lettere dalla Palestina, e aiuto di Scola, Bernardo Bertolucci, Alberto Sironi) è insomma un meta-viaggio, ironico e amaro, nel nostro passato. Un memoriale post-mortem che ha la sua maggiore forza nell’uso non convenzionale del materiale offerto dall’AAMOD (Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico). Rielaborato in una narrazione difficile da ingabbiare in un genere, dove la finzione si fa (auto)analisi brechtiana incurante della quarta parete, e il document(ari)o si gioca tutto nella zona grigia tra verità collettive e singolarità immaginate.

La protagonista Livia Bonifazi (già nell’opera prima del marito Angeli, La rentrée) aderisce perfettamente a questo caleidoscopio di forme e formati audiovisivi, che si fa ora rievocazione pasoliniana ora commedia grottesca, ora fumetto ora videoclip (per le canzoni di Fabrizio Gatti), ora teatro epico ora melodramma nella love-story col pittore estremista Walter (Stefano Pesce). A restituire la vitalità radicale di una stagione ripercorsa nelle sue utopie e contraddizioni, vittorie e disillusioni. E, soprattutto, nella sua capacità di generare quella che Luisa chiama «folgorazione», ovvero «un baratro tra ciò che credevi di essere e ciò che sarai in futuro». Qualcosa di cui dovremmo riappropriarci.