L’ultimo Martini per James Bond. “No Time To Die” il passato stavolta non ritorna

In sala dal 30 settembre (per Universal) l’atteso nuovo capitolo della saga di James Bond: “No Time To Die” girato (anche) tra i sassi di Matera. L’eroe nato dalla penna di Ian Fleming, ancora una volta col volto di Daniel Craig, è protagonista di un film esplosivo e crepuscolare al tempo stesso. Quasi un addio alle scene, un ineluttabile congedo dal suo passato …

È regola del calcio che venga ritirato e mai più concesso ad altri giocatori il numero del fuoriclasse che si ritira. Così è stato per il 10 di Maradona al Napoli. Così non è per lo 007 di James Bond, che in No Time To Die rientrando controvoglia dal pensionamento vede riassegnato il numero del suo tesserino a Nomi (Lashana Lynch): giovane, donna, nera, tosta e, a differenza di lui, ancora incline al rispetto del regolamento. Alla notizia Bond non fa un plissé: “È solo un numero”. Ma sappiamo tutti che non è vero.

I tempi cambiano, e questo 25esimo Bond diretto da Cary Fukunaga – che abbiamo imparato ad amare con il primo True Detective – lo racconta con uno stile esplosivo e al tempo stesso mai così crepuscolare. Perché siamo al finale di partita e sia che si tratti del mondo che combatte, quello che vuole difendere, o persino dei suoi affetti, il Bond che ci mette davanti Daniel Craig è un eroe ben più sfaccettato, del resto lui da tempo ci aveva abituati ad un personaggio più complesso.

“Bisogna lasciar andare il passato, per quanto sia difficile” gli dice la dottoressa Madeleine Swann (Léa Seydoux) a inizio film – il suo nuovo ultimo grande amore, capace di ferirlo come solo l’amore può fare – ed è su questa considerazione che l’uomo/Bond arriva ad interrogarsi: anche un eroe come lui, che ci siamo abituati a vedere sparire e risorgere all’infinito, con facce diverse ma sempre lo stesso Martini agitato-non-mescolato in mano, ineluttabilmente deve congedarsi dal suo passato.

Non spoilereremo troppo quello che probabilmente leggerete ovunque, in No Time To Die tutto quello che si vuole da un film di Bond c’è. Gli inseguimenti folli, le sparatorie e le moto che saltano come grilli per i vicoli dei sassi di Matera, dove il capobanda è cecato e in quanto italiano sembra uscito da Gomorra; i noti gadget (la Aston Martin killer, l’orologio multiuso, ma anche la pacifica barca a vela); l’esotismo delle location, che sia la Giamaica o Santiago di Cuba, l’Italia o i boschi della Norvegia, teatro dell’ennesima fuga e conseguente carneficina che tanto ricorda gli inseguimenti tra Luke Skywalker e gli Stormtrooper (che qui hanno moto da enduro e non scooter a reazione).

E c’è ovviamente la Spectre, gli scienziati pazzi, e i nemici di sempre, Blofeld (Cristoph Waltz) che ritroviamo in prigione dipinto come una specie di Hannibal Lecter. E i nemici nuovi: Rami Malek, il super cattivo che per quanto deturpato dal makeup finisce sempre col farti pensare a Freddie Mercury (da lui interpretato in Bohemian Rapsody).

Lyutsifer Safin, così si chiama, traffica con sostanze chimiche e biogenetiche in ottica di sterminio di massa. La sua è un’organizzazione che può ricordare la struttura della setta Aum Shinrikyō di Shōkō Asahara negli attentati alla metropolitana di Tokyo nel 1995, nei quali venne impiegato un gas nervino chiamato… Sarin.

L’isola dove ha portato la sua organizzazione fa pensare tantissimo a quella del dottor No di Licenza di uccidere: permetteteci di dire che abbiamo apprezzato il cemento armato brutalista della residenza di Safin.

Non potevano mancare le Bond girl, e non mancano. E si può dire – come del resto anticipato dalle dichiarazioni metooiste del regista – che a loro è affidata la funzione di mostrare quanto Bond si spogli della sua “mascolinità tossica” da macho sciupafemmine per darsi un tono di understatement venato di malinconia, senso paterno e sensibilità.

Quando va a Cuba per infiltrarsi in una festa (che non dimenticherete), gli viene assegnata la giovane Paloma, “tre settimane di corso preparatorio all’azione” ben fruttate, ma con un grave difetto: scola d’un fiato il Martini.

Paloma lo porta nella cantina dei vini per fargli indossare lo smoking per il party. In altri tempi non avrebbe perso l’occasione di saltarle addosso; ora addirittura le chiede di girarsi mentre lui si spoglia!

Chissà se su quella scenetta ha rimesso le mani miss Fleabag Phoebe Waller-Bridge, una delle autrici-attrici più dissacranti del momento, che la produttrice Barbara Broccoli ha chiamato in corsa per svecchiare la sceneggiatura. E il bello è che questo è il Bond meno ironico mai visto.

Anche Londra si presenta con la patina di colori lividi in tutta la gamma dei grigi così come grigio e ottusamente incapace di interpretare i tempi moderni – lo confessa lui stesso – è M,
Ralph Fiennes, il direttore dell’Intelligence (che speriamo sia colpa del trucco se appare così stanco e invecchiato), addirittura involontariamente responsabile del rischio di catastrofe che Bond dovrà scongiurare.

Fortuna che ci sono Q (Ben Whishaw) e Miss Moneypenny (Naomie Harris) – le giovani generazioni! – a dare una mano a Bond, così come pure la neo 007 Nomi… che sceglie di stare un passo indietro, concedendo l’onore dei riflettori al titolare della premiata ditta fondata da Ian Fleming. Il mondo d’altra parte non ha bisogno di un Bond femmina o di altro genere; c’è spazio per far nascere milioni di nuove/i eroine/eroi.
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“Bisogna lasciar andare il passato” è dunque la chiave. Non è la prima volta che 007 volta pagina. Nel fatidico 1968, quattro anni dopo la morte di Ian Fleming, la Gildrose che deteneva i diritti commissionò a Kingsley Amis (famosissimo romanziere anche se oggi per molti è “il papà di Martin Amis”) il primo Bond nato per clonazione, e lui scrisse Il colonnello Sun con lo pseudonimo Robert Markham.

La storia si dipanava tra le isole greche, e vedeva l’agente di Sua Maestà allearsi con i vecchi nemici sovietici e una bella comunista contro colonnelli cinesi ed ex gerarchi nazisti; la guerra fredda non era finita ma gli equilibri già si spostavano, e Bond si adeguava.

Il libro ebbe accoglienze miste e non è mai diventato un film, ma poco importa. Al termine delle due ore e tre quarti di No Time To Die, restano poche certezze: se, come sappiamo, si vive solo due volte e questo, nonostante tutto, non è il momento per morire, cosa ci riserverà il futuro?