Nelle miniere cinesi l’Inferno di Dante
In odore di palmarès, “Behemoth”, del cinese Zhao Liang. La lettura della Divina commedia accompagna il lavoro forzato dei minatori nel ventre della terra. Ma alla fine non c’è il paradiso. Durissimo atto d’accusa contro la corsa fallimentare della Cina alla modernità …
Le miniere di carbone come girone d’inferno: da qui parte Behemoth di Zhao Liang (titolo originale Beixi moshuo, il distretto di Bexi dove è ambientato), presentato in concorso al Festival di Venezia e in corsa per il Leone d’oro.
Il film cinese, atteso dopo i molti leoni orientali degli ultimi anni, è un viaggio documentario tra i lavoratori delle miniere: il regista cita Dante per sviluppare il suo discorso, sia concettuale sia visivo. L’idea è che il duro lavoro minerario significhi calarsi nel ventre della terra, all’inferno appunto, e scivolare gradualmente dalla “vita normale” a una condizione punitiva, di contrappasso rispetto al quotidiano del mondo di sopra.
Ma non c’è solo l’Inferno: “Ho descritto un’enorme catena industriale, in cui i colori rosso, grigio e blu rappresentano rispettivamente i tre regni danteschi”, dice l’autore. Senza prevedere una catarsi: “Vivono un’esistenza da purgatorio, alla fine non c’è nessun paradiso. Allora la Divina Commedia accompagna il narrato, letta dal cineasta fuori campo, e attraverso la letteratura sottolinea la drammaticità di ciò che scorre sullo schermo.
Sono le uniche parole della pellicola: oltre a queste vediamo inquadrati i lavoratori e il fondale della natura, secondo l’assunto che le immagini sono già significanti in sé e non serve commento. Dall’altra parte lo sfondo sulfureo delle miniere, il fumo che si leva al cielo insinuano un paesaggio post-atomico da fantascienza, e insieme riprendono il motivo infernale proponendo quella realtà come possibile traduzione visiva del racconto dantesco.
Ecco dunque uomini che si piegano di fatica, morti sul lavoro, ammalati di malattie polmonari per aver respirato le polveri. Una splendida ripresa è dedicata alle mani di un operaio, in primo piano, segnate da calli che le deformano, metonimia dell’effetto dello sforzo che porta all’alterazione del corpo umano, trasformato in qualcos’altro e ormai compromesso.
Il film poi ritaglia un focus sulle città fantasma della Cina: interi complessi intorno alle miniere, mostri dell’industria pensate, per progetti maestosi rimasti scheletri disabitati. Qui, come nei film di Jia Zhangke (Still Life, per esempio Leone d’oro 2006), il regista sfiora il tema portante della cinematografia cinese contemporanea: la critica alla modernità, in un Paese cantiere infinito, che vuole rinnovarsi ma lascia incompiuti i suoi piani.
Zhao Liang sviluppa una strategia squisitamente visiva, basata sulla costruzione dell’inquadratura, in cui il silenzio dei personaggi ci chiama in causa, è proprio la nostra visione a dare sostanza alla pellicola. Egli non si limita però a inquadrare scientificamente le figure umane: prende anche gli spettatori e li indirizza, attraverso il suo sguardo, verso strade a volte dissonanti e percorsi di senso forzati.
Così nelle riprese in ospedale il regista “sequestra” l’occhio, mostra le conseguenze delle malattie, esaspera la condizione ed enfatizza per l’unica volta il dramma degli operai. Il suo film ricorda People mountain people sea di Cai Shangjun, Leone d’argento a Venezia 2011: altro girone dei minatori, altro inferno di carbone, che come questo non si limitava alla denuncia ma colpiva anche con il racconto e la sua messa in immagini.
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