Non si butta niente. Le vite “sovraccariche” dei gemelli Abraham e Shagra
In sala dal 14 dicembre (per Lab80 Film) “La poltrona del padre”, doc italo-americano di Antonio Tibaldi e Alex Lora. Una coppia di gemelli ebrei newyorkesi ossessionati dagli oggetti di famiglia che accumulano compulsivamente fino ad esserne travolti. Il film ci accompagna nello sgombero dell’appartamento, diventato il fortino dove i due anziani fratelli hanno compresso le loro solitudini. Da vedere…
In inglese viene chiamato Hoarding Disorder, pomposamente tradotto in italiano con disposofobia. In realtà, questo disturbo – che porta le persone ad accumulare roba in casa fino ad esserne travolte – ha molte sfumature e non solo quelle della fobia.
Vi indaga con felpata discrezione La poltrona del padre, il film documentario di Antonio Tibaldi e Alex Lora – in uscita il 14 dicembre sugli schermi- , riprendendo lo sgombero e le pulizie nella casa degli anziani Abraham e Shagra.
Per quanto stravagante possa apparire il tema trattato, la disposofia è in realtà un disturbo piuttosto diffuso in America, tanto da aver ispirato un paio di trasmissioni televisive molto seguite, e dove diventò famoso nella New York degli anni Quaranta il caso dei due fratelli Collyer, fatalmente stipati nella loro casa di tre piani. La cui vita, romanzata, è finita nel libro Homer & Langley di E.L. Doctorow, tradotto in Italia da Mondadori.
Il film documentario di Tibaldi e Lora sembra quasi ispirarsi alla lontana a quella storia, trapiantandola nel cuore di Brooklyn, tra una fila di ordinate villette in mattoncini, dove abitano i protagonisti. Dalla morte dei genitori, i due fratelli sono sprofondati nell’ossessione compulsiva del non buttare via nulla e vivono tra scatole, immondizia e gatti randagi che vanno e vengono.
Al cambiamento sono costretti dalla loro inquilina al piano di sopra, che minaccia di non pagare più l’affitto se non provvederanno a ripulire l’appartamento dal quale provengono maleodoranti vapori. Così, la cinepresa entra in punta di piedi e con i guanti come gli operatori sociali giunti in soccorso dei due fratelli, scandendo in sette tappe e un epilogo il riscatto dal caotico blob.
Il film è tutto in levare, non solo – materialmente – nel rimuovere tutte le scartoffie e la sporcizia, ma anche nel racconto della vita dei fratelli (due gemelli, che si specchiano l’uno nell’altrui debolezza, e un altro più giovane che risiede altrove), accennata per brevi, impercettibili segni.
L’immateriale presenza del padre, ebreo chassidico, che aleggia su una poltrona, ultima spiaggia dove sostare, probabilmente nel ricordo di una vita altra, forse più felice. Quella della madre, negli abiti ficcati alla rinfusa in un vecchio sacchetto di plastica. Qua e là le tracce carsiche di una fede ortodossa che affiora in un rotolo della sacra scrittura, nei libri ebraici che non possono essere buttati ma sepolti come da tradizione.
Nel loro “fortino” tracimante di robe, i due fratelli hanno compresso la loro solitudine, la diffidenza dal mondo, appena mitigata dalla mediazione felina (uno dei due convince l’altro a presentarsi agli operatori descrivendoli come persone sensibili e amanti dei gatti). Lo scavo tra i detriti della casa e dell’anima procede con delicatezza, brevi pause, domande per aiutare il distacco. Finché l’interno raggiunge un dignitoso equilibrio con l’esterno di mattoncini e il vecchio può conquistare il suo posto, assieme al gatto di turno, sulla poltrona del padre.
Una parabola breve (poco più di un’ora), sottovoce, che spunta come una piccola orchidea dalla palude dell’alienazione metropolitana.
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