Nora, Elvira e le altre, on the road nel Novecento
La storia di un secolo raccontata al femminile, attraverso le vite di sette donne. Personaggi di “carne” per un film tutto da “inventare” a partire dal romanzo “d’amore e d’odio” di Maria Rosa Cutrufelli (Frassinelli editore). Parola di Wilma Labate…
Quando ho cominciato a fare cinema, e non ero più una ragazzina, si è come interrotto un modo che avevo di leggere, semplice diretto, è invece cominciato un nuovo periodo, quello che chiamo della lettura deformata. Per ogni romanzo o racconto che leggo, si apre una nuova storia per il cinema e la lettura è critica solo in quel senso.
Leggo e guardo la scena, calibro i dialoghi, vedo il personaggio, penso all’interprete, anzi decido a quale attore affidare quel ruolo. Questo lavoro, noi gente di cinema, assai più semplice di chi per mestiere fa il critico, lo facciamo senza pudore né rispetto di chi ha lavorato per costruire un’opera, di chi ha sudato sulla pagina, nella biblioteca, viaggiando nel paese che racconta, parlando con i sopravvissuti, e non amiamo parlarne con altri, è un lavoro intimo, privato, di cui siamo gelosi. Perché ci apprestiamo a rubare. Ci succede la stessa cosa quando vediamo un bel film, con un basso sentimento in più: siamo invidiosi.
Di solito apro il libro e leggo, senza i rituali delle persone colte, spesso ignoro anche il retro di copertina, pronuncio il titolo a voce alta e vado: d’amore e d’odio, di Maria Rosa Cutrufelli funziona. È breve e intenso, uno sguardo a quel titolo, lanciato dall’auto sui parapedonali sicuramente incuriosisce, risulta attraente, magari corredato da sette primi piani, inquadrati di traverso, sette personaggi femminili, una bomba per un cinema che ancora stenta a raccontare le donne, fatto soprattutto di sguardi maschili. Sette, come i Sette samurai, come Sette spose per sette fratelli, come Seven, quel bellissimo noir degli anni novanta. Come Sette volte donna, strano film di De Sica con Shirley Mclane che interpreta sette diversi ruoli.
Sette tempi, sette donne, sette storie che attraversano il nostro Novecento. Lette d’un fiato, vorrei dire in sette giorni, assaporando la storia che ci riguarda eccome, goduta e sofferta, senza retorica ne supponenza, come se fosse un “on the road” attraverso il tempo di questo paese, immaginando ora Thelma, ora Luise che macinano chilometri a bordo di un’auto scoperta mentre ci raccontano una provincia un po’ feroce.
Nora, Elvira, Isa, Leni, Carolina, Sara, Delina, quale attrice saprebbe resistere a interpretare un ruolo così ricco di spessore, avventuroso, emozionante? Ho dimenticato I magnifici sette altro film di uomini a tutto tondo, ma nel cinema è solo una questione di genere. Il western è fatto di grandi spazi, di conflitti e di viaggi, anche il racconto di un secolo di storia, con sette eroine, può essere un western, è solo questione di forma dentro cui assestare una storia che affonda dentro l’identità senza fermarsi alla superficie del ruolo della sposa, dell’amante tradita, della madre.
Ora nel pieno del godimento, quando la lettura si fa piacere e si entra nel ritmo crescente delle parole e un sentimento di ansia t’incolla all’oggetto di carta, mentre il corpo rivendica una posizione comoda, calda e le mani bistrattano la copertina perché è rigida e costringe a una postura determinata e il desiderio è quello di far scivolare via le pagine, anzi di buttarle con lo stesso impulso che ci fa divorare il panino col pomodoro addentato sulla spiaggia dopo l’ultimo bagno della giornata, quando l’aria è più frizzante e il solo non morde più, e lo squillo di un telefono produce un immediato spontaneo verbale “che palle”, interviene un ennesimo brutale condizionamento: i soldi.
La ricostruzione storica costa un sacco di soldi, il fronte, l’ospedale, la fabbrica, il campo profughi, gli scontri di piazza, Berlino…Nel pieno del delirio di piccola cineasta, piccola anche nella statura, complesso mai risolto, anche dopo secoli di psicanalisi, delirio nel quale già si parla con le attrici, si visitano i luoghi con lo scenografo mentre la costumista arriva con le braccia cariche di stracci e le mani ingombre di bozzetti e a tutti i costi chiede udienza perché deve scegliere il colore, la stoffa, le scarpe e la parrucchiera con le forbici in mano minaccia un gesto inconsulto e sproloquia che basta un bel taglio per fare l’epoca e tutto il resto è fuffa e che il cinema deve finirla di considerare il reparto del trucco parrucco (noi lo chiamiamo così) di seconda categoria, e che ci sono fior di Oscar… e finalmente arriva l’aiuto regista che con fare da sergente mette un poco di ordine, ma intanto l’incantesimo si è rotto. Il bel romanzo di Maria Rosa al cinema costa un sacco di soldi.
Se si pensa di realizzarlo in modo classico però, se non se ne coglie il linguaggio, diverso dal racconto storico, molto più agile, è materiale duttile, mai pretenzioso. d’amore e d’odio si presta a sperimentare nuove scritture della macchina da presa, le suggerisce, le dispiega in molte ipotesi, tutte da percorrere, senza lasciarsi imprigionare nelle formule del cinema sontuoso. Ha ragione la capa del reparto trucco parrucco, la storia sollecita l’immaginazione, le parole di queste sette donne animano gli eventi più di un esercito di comparse perché sono di carne, la loro vita è come quella di tutte noi, piena di capitomboli, errori, passioni e questi sono ingredienti preziosi per il cinema perché c’è il conflitto e l’ identificazione, i personaggi non sono avulsi dalla realtà, ci si può identificare anche se si appartiene a un’altra epoca, anche una teen-ager platinata, coi piercing e una canna perennemente tra le labbra, una che pratica il disimpegno come fatto ideologico, può perdere la testa per Leni, Delina, Elvira e le altre.
Forse davvero basta un bel taglio di capelli e uno stile asciutto, povero e essenziale, come dogma, ma solo per fare un esempio. Lo stile del film tratto da questo romanzo è tutto da inventare, i dialoghi come in una pièce teatrale, sono l’impalcatura su cui costruire le scene, si parte dalla parola e si procede con l’azione ma ridotta all’osso perché la forza di questa storia sono le donne, come in quei rari film che in gergo chiamiamo d’attore, forti e coraggiosi, e che spesso non si possono catalogare in un genere perché hanno uno stile unico, fuori serie, del tutto nuovo.
Wilma Labate
Regista e sceneggiatrice. I suoi film sono spesso caratterizzati da forti tematiche sociali e da figure femminili fuori dagli schemi. Debutta nel ’92 con "Ambrogio", seguono "La mia generazione" (candidato italiano all’Oscar per il miglior film in lingua straniera nel ‘96), "Domenica" (2000), i film collettivi, "Un altro mondo è possibile" (2001) e "Lettere dalla Palestina" (2002), "Maledettamia" (2003), "Signorina Effe" (2007), "Qualcosa di noi" (2014), "Raccontare Venezia" (2017) e "Arrivederci Saigon" (2018). Tra le sue sceneggiature, "La pecora nera" di Ascanio Celestini (2010)
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