Prigioniero (politico) del Papa Re. “Rapito” di Marco Bellocchio contro gli integralismi è il film dell’anno

“Rapito” di Marco Bellocchio è il miglior film dell’anno per il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici. La cerimonia di premiazione, nell’ambito della 35ª edizione del Trieste Film Festival, sarà il 23 gennaio. Al centro il caso Mortara, il bimbo ebreo strappato alla sua famiglia da papa Pio IX nel 1858. Liberamente ispirato al libro di Daniele Scalise (Un posto sotto questo cielo) il film riflette e mette in guardia dai poteri assoluti. Lèggi religione, integralismi ed ogni forma di assolutismo, così nuovamente in voga in questi nostri tempi bui di sovranismi e restaurazioni. Presentato a Cannes 2023 …

Pio IX, col codazzo papale, entra nella chiesa tra i devoti sacerdoti. È una gara di devozione: chi gli bacia il piede, chi la mano. E lui il giovane Edgardo Mortara, ormai in abiti da sacerdote, con più zelo di tutti lo travolge. Letteralmente, nel goffo tentativo di toccare quel suo tanto amato secondo padre che ormai molti anni addietro l’aveva strappato alla sua famiglia di ebrei bolognesi.

Marco Bellocchio è più in forma che mai. Ne è la prova Rapito che conferma la corenza e la forza del suo percorso artistico, ancora una volta capace di interrogare e mettere in guardia dai poteri assoluti. Lèggi religione, integralismi ed ogni forma di assolutismo, così nuovamente in voga in questi nostri tempi bui di sovranismi e restaurazioni.

La scena di cui sopra, infatti, con “zampata” d’artista questo racconta. Come del resto il libro di Daniele Scalise (Un posto sotto questo cielo) a cui il film molto liberamente è ispirato. Quella fede assoluta che, dopo il rapimento, dopo anni di seminario e la vita alla corte del papa re, è maturata nel giovane Edgardo, trasformandolo in una sorta di influencer della chiesa. Un’altra forma di cecità, anche quella.

Fin qui, infatti, abbiamo toccato con mano quella di Pio IX. A far scattare il rapimento la rivelazione da parte di una domestica di aver battezzato il piccolo Edgardo, in gran segreto, avendolo temuto in punto di morte. Siamo a Bologna nel 1858 che è ancora Stato Pontificio. E la legge papale è inappellabile. I soldati fanno irruzione in casa Mortara e prelevano il bimbo di neppure sette anni tra gli sguardi sconvolti degli altri sette fratelli, le lacrime della madre (Barbara Ronchi) e l’angoscia del padre (Fausto Russo Alesi).

“Io ti rapisco perché Dio lo vuole. E non posso restituirti alla tua famiglia. Sei battezzato e perciò cattolico in eterno”. È il Non Possumus del Papa Re. Contro il quale a nulla serviranno le pressioni internazionali, la protesta delle comunità ebraiche e in ultimo, gli infiniti tentativi di dialogo e non, della famiglia Mortara.

Il destino del piccolo Edgardo (un sorprendente Enea Sala) sarà segnato. Ma non solo il suo. La pratica della conversione dei bimbi ebrei, infatti, era ben diffusa nello Stato Pontificio. Così che lo vediamo nel seminario dei catecumeni a Roma, insieme a tanti altri ragazzini, avviati anche loro alla scuola cattolica (Edoardo Albinati collabora alla sceneggiatura scritta dallo stesso Bellocchio con Susanna Nicchiarelli).

Non solo l’ora di religione ma un percorso di luci ed ombre che il piccolo Edgardo vive tra sogno e realtà. “Vedi quello è Gesù. Era ebreo come te, era battezzato come te. Gli ebrei l’hanno ucciso” gli sussurano all’orecchio nelle sue nuove stanze. E quella scena in cui lui si sveglia di notte, va davanti al Cristo per toglierli via i chiodi, mentre Gesù una volta “liberato ” scende dalla croce buttando via la corona di spine, è davvero da antologia.

Meglio, è proprio da Marco Bellocchio che è dai tempi dei Pugni in tasca che grida (ma oggi senza più bestemmia) contro la cecità della chiesa, delle religioni, degli assolutismi. E del resto l’ostinazione della fede è di casa anche in casa Mortara. La mamma sceglierà di non rinunciare alla Thorha neanche sul letto di morte, a sua volta sotto le ennesime pressioni del figlio che, ormai, sacerdote tenterà fino all’ultimo di ottenere la sua conversione.

E chissà questo tema come l’avrebbe raccontato Steven Spielberg se avesse portato a termine il suo progetto. E già perché anche il regista di Schindler’s List si era interessato al caso Mortara, per poi abbandonarlo in corsa.  Nel suo caso, però, il punto di partenza era stato il libro Prigioniero del Papa Re di David Kertzer. Qui, l’abbiamo detto, è stato quello di Davide Scalise che in 11 capitoli racconta la storia dolorosa della famiglia Mortara, il momento storico con le truppe sabaude pronte a conquistare Roma e il potere papale che volge al termine, la dissociata vita adulta di Pio Edgardo che, senza mai rinnegarla, girerà il mondo raccontando la sua storia di conversione per far soldi per la Chiesa, come farebbe oggi un influencer.