Quando si nasceva comunisti e l’Erasmus si faceva a Mosca. Nel doc doc su RaiPlay

Su RaiPlay il documentario di Catherine McGilvray “Sono nato comunista” (2017). Un viaggio a ritroso nel tempo, quando in piena Guerra Fredda, la Fgci (la Federazione giovanile del Pci) inviava ogni anno 15 giovani all’università statale di Mosca “Lomonosov” con l’intento di creare un’élite di intellettuali e dirigenti di partito. Il racconto toccante di un gruppo di loro che interpretano con passione civile, e con uno spessore umano di cui si è perso lo stampo, un passaggio decisivo della storia del nostro paese e del movimento comunista internazionale. E certo che quella capacità critica e quel bagaglio di esperienze sembrano lontani anni luce da quelli che improntano il personale politico e il dibattito dei giorni nostri. …

Interessante e curioso l’esperimento che si potrebbe definire un Erasmus ante litteram e comunista. L’esperimento ebbe luogo tra il 1955 e il 1961, periodo in cui – in piena guerra fredda – la Fgci (la Federazione giovanile del Pci) inviò ogni anno 15 giovani all’università statale di Mosca “Lomonosov” con l’intento di creare un’élite di intellettuali e dirigenti di partito.

A riproporre questa pagina poco conosciuta della storia della sinistra italiana è il documentario della regista e sceneggitrice Catherine McGilvray Sono nato comunista (2017), coprodotto da Federico Schiavi e dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, andato in onda per la prima volta lo scorso 20 marzo su Rai Storia per il ciclo Documentari d’autore e ora visibile su RaiPlay.

Il documentario alterna immagini di repertorio, alcune delle quali tratte dalle memorie personali, con interviste ai protagonisti. Tutti personaggi che interpretano con passione civile, e con uno spessore umano di cui si è perso lo stampo, un passaggio decisivo per loro stessi, per la storia del nostro paese e per il movimento comunista internazionale. Quelli della loro formazione a Mosca, infatti, sono stati anni cruciali da tutti i punti di vista.

Sul piano personale è stata per alcuni di loro l’occasione per ampliare gli orizzonti, per gettare le basi del proprio futuro ma anche per fraternizzare con i colleghi russi e per conoscere il futuro coniuge. Non furono però anni spensierati. Si doveva imparare il russo a tappe forzate, adeguarsi al tenore di vita dell’Unione Sovietica e rimanere a Mosca per cinque anni senza possibilità di tornare in Italia, neppure in occasione della morte di un genitore.

Proprio in quegli anni, poi, ci fu il passaggio dal disgelo della cortina di ferro alla comparsa dei primi dissidenti, paralizzati dalla paura e dal clima di sospetto che si andava diffondendo in Unione Sovietica. Nel 1956 i tumulti operai che avevano avuto luogo a Poznan in Polonia erano stati duramente repressi dalla polizia.

Nel mese di ottobre l’Armata Rossa aveva invaso l’Ungheria per schiacciare sul nascere ogni deviazione dall’ortodossia sovietica. E tuttavia, in quello stesso anno, si era tenuto il XX congresso del Pcus, nel quale Nikita Kruscev aveva denunciato il culto della personalità di Stalin e le sue violazioni della legalità socialista, dando inizio al processo di destalinizzazione.

I protagonisti del documentario – alcuni dei quali sono poi rimasti fedeli all’Unione Sovietica senza mai abiurare, altri hanno seguito la strada dell’eurocomunismo tracciata da Enrico Berlinguer con ruoli di responsabilità nel partito, altri ancora, specie dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, hanno finito per abbandonare l’ortodossia comunista – rappresentano un campionario significativo del dibattito di quegli anni, con il repertorio di certezze, dubbi, conflitti e ripensamenti che si portava con sé.

Un dibattito alimentato dai sommovimenti successivi che, a partire dal ’68, gettarono le basi della caduta del muro di Berlino e di tutto ciò che ne è conseguito nel bene e nel male. “Gorbaciov in fondo è stato anche lui un nemico del popolo: ha fatto crollare non solo il muro di Berlino ma anche l’Unione sovietica”, commenta ad esempio Massimo Picchianti con amara rassegnazione. Fedele fino in fondo alla rivoluzione russa, verrebbe da dire, proprio lui che, in quanto “non gradito”, fu rimpatriato in Italia alla vigilia del matrimonio che stava per contrarre in Unione Sovietica.

Anche Rossana Platone si contrappone ai critici dell’ortodossia come Berlinguer, “che – dice senza nascondere la delusione per un tale sproposito – si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della Nato”. Di tutt’altro avviso Maria Rosa Cricchi e Salvatore Pepitoni, questi ultimi conosciutisi a Mosca e divenuti marito e moglie, e Dino Bernardini, che dopo quell’ esperienza fu inviato alla redazione di Problemi della pace e del socialismo, organo internazionale del movimento comunista con sede a Praga.

Tutti estremamente critici sulla deriva sovietica prima e soprattutto dopo l’invasione della Cecoslovacchia. Chiara Spano, che è stata presidente all’Istituto italiano di cultura di Mosca, lei figlia di quel Velio Spano che aveva diretto l’Unità durante l’esilio in Francia (1937) e poi era stato condirettore dell’edizione meridionale (settimanale) e di quella locale di Roma (dal ’43), non esita a mettere in discussione il modo in cui Palmiro Togliatti condusse una sua battaglia “tutta politica”. “Non so – aggiunge – quanto lui avesse a cuore la classe operaia come l’aveva mio padre”.
Altri tempi? Forse. Ma certo quella capacità critica e quel bagaglio di esperienze sembrano lontani anni luce da quelli che improntano il personale politico e il dibattito dei giorni nostri.