Rutger Hauer, l’ultimo replicante. Sarà al largo dei bastioni di Orione tra i perdenti del 2019
Era il 2019 – nel futuro distopico di Ridley Scott- e uno schiavo ribelle, fabbricato dall’uomo per essere utilizzato come forza-lavoro nelle colonie extraterrestri, si lasciava morire con queste parole: “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione… e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”. Si lasciava morire restituendo alla vita il suo killer, Rick Deckard, cioè Harrison Ford.
Niente di quanto citato apparterrà mai all’esperienza di “noi umani”, eppure quel monologo di Blade Runner, recitato da un semidio artificiale – e amletico per consapevole scelta – è rimasto scolpito nel linguaggio comune. È un patto col destino, quello sottoscritto da Rutger Hauer?
Accade di riflettere, quando se ne va troppo presto un olandese bizzarro che ha consegnato praticamente a un solo film il suo scalpello nella nostra memoria. La coincidenza di date – un 2019 in cui non tutto, ma il peggio, è diventato realtà – colpisce, non meno però della sua morte da villain, motore di tutto, nell’ultimo grande film che ha sfruttato il carisma di Rutger Hauer, un western sontuoso e anomalo di Jacques Audiard, The Sisters Brothers. Lui era “The Commodore”, moriva prima che la vendetta dei suoi sicari lo cancellasse dal mondo.
Se nasci con gli occhi di ghiaccio, il cinema ti vuole cattivo per sempre, il Male incarnato in The Hitcher, il Van Helsing di Dracula 3D, Sin City, Batman Begins … Eppure ti sei battuto per conquistarti un ruolo da Hero in Ladyhawke e Olmi ti canonizza, nientemeno, in La Leggenda del Santo Bevitore e molto dopo in La casa di cartone.
Detestava la birra, Rutger Hauer, la sputava dopo ogni ciak, ma quando girò i commercials della Guinness le vendite in Gran Bretagna fecero un balzo del 22 % in tre mesi. Carisma.
Non voglio ripercorrere la filmografia “involontaria” di un “buono”, ambientalista militante, benemerito della battaglia anti-Aids, associato nella finzione a una maschera che non era la sua.
Voglio capire perché le parole del suo replicante Roy Batty di Blade Runner (sintetizzate dal testo di Philip K. Dick ) si sono impresse nella memoria e nel linguaggio comune.
Dipende dal fatto che la creatura “inferiore” può dare lezioni di umanità al suo signore e padrone, a chi è autorizzato a decidere del suo destino. Ha un ruolo e una durata di vita definiti per legge, ma può ribellarsi. E la sua ribellione produce – nel suo antagonista- coscienza, non genera morte e vendetta. C’è una porzione di universale, in quel frammento di cinema, che ci è passata nel sangue, praticamente subliminale.
Non vale la pena di ricordare quanti di “noi umani” – dotati, come Roy Batty, di sentimenti, dolore e memoria – hanno lo status di replicanti “di fatto”. Rutger Hauer diceva che non sono gli attori a fare grandi i film, sono i grandi film a “fare” gli attori. Blade Runner lo ha elevato a simbolo, a emblema.
Al largo dei bastioni di Orione, oggi sappiamo che quel replicante è tra noi, somiglia a tutti i perdenti del 2019, immaginato e reale. Davvero, “è tempo di morire”… o di vivere.
Teresa Marchesi
Giornalista, critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come Inviato Speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, "Effedià- Sulla mia cattiva strada", su Fabrizio De André, premiato con un Nastro d'Argento speciale e "Pivano Blues", su Fernanda Pivano, presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.
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