Se Dante va “stretto” a Pupi Avati. Sarebbe stata meglio una serie tv

Al cinema dal 29 settembre (per 01 Distribuzione) il “Dante” di Pupi Avati. Un progetto molto sofferto e covato per vent’anni sul viaggio poetico e umano del Sommo Poeta evocato da un altro viaggio e da un altro gigante, Giovanni Boccaccio, col volto di Sergio Castellitto. Un film ambizioso a cui avrebbero giovato i tempi più distesi e meno contratti di racconto delle serie tv. Oltre che una maggiore libertà nell’espimere la vena gotica del regista. E in contemporanea esce in libreria “L’alta fantasia” che del film è la traccia …

 

Perché non una miniserie? È il tipo di domanda che un critico, su un film, non dovrebbe mai porre. Trasgredisco le regole per il Dante di Pupi Avati, che esce in sala il 29 settembre, il progetto più lungamente e appassionatamente accarezzato dall’autore bolognese e il più determinatamente ambizioso, per sua stessa ammissione.

La chiave è obliqua e ingegnosa: il viaggio poetico e umano del Sommo Poeta evocato da un altro viaggio e da un altro gigante, Giovanni Boccaccio. Non è pretestuoso. Il Trattatello in Laude di Dante del Boccaccio ha fornito ad Avati la traccia per il romanzo L’alta fantasia, che esce con Solferino editore a ridosso del film.

E c’è un rapporto di amore profondo che lega Boccaccio a Dante: ha ricopiato di sua propria mano la Commedia almeno tre volte, ha aggiunto il “Divina” al titolo originale, è stato fautore della sua conservazione, quando per i conventi l’opera era all’indice perché attaccava pontefici come Bonifacio VIII e Giovanni XXII. Ha preceduto, infine, Roberto Benigni di una manciata di secoli, con le sue affollatissime Lecturae Dantis in quel di Firenze.

Il Boccaccio di Sergio Castellitto, nel film, è il tramite del modesto risarcimento che i fiorentini sentono di dovere a suor Beatrice, figliola di un genio braccato, esiliato, perseguitato, sopravvissuto per caso alla condanna a morte dopo che i suoi beni erano stati confiscati e distrutti.

Sofferente e piagato dalla scabbia, Boccaccio intraprende con smisurata umiltà il penoso cammino fino a Ravenna, toccando le tappe del calvario dantesco lungo lande impregnate, ancora, del “puzzo della peste”.

È, simbolicamente, il risarcimento che Pupi Avati sente di dovere a Dante, così poco amato sui banchi di scuola, così remoto e disumanizzato dalle celebrazioni dell’ultimo centenario.

L’unica via era rileggerlo da autodidatta (“come andrebbero letti tutti i classici”), scoprendone l’umanità palpitante attraverso la Vita Nova. I sonetti, per il regista, sono “la vera colonna sonora del film”. E andava spezzato lo schermo di inavvicinabilità che ha sempre impedito al cinema di misurarsi con quella figura e quei versi.

È vero quello che dice il regista: il nostro cinema ha rinunciato alle grandi ambizioni. Come i ragazzi che sognano questo mestiere, finisce sempre per rifugiarsi nei “piani B”. Nessun piano B per gli attori che hanno accompagnato il regista nell’avventura: tra loro Alessandro Sperduti (Dante giovane), Enrico Lo Verso, Alessandro Haber, Carlotta Gamba (Beatrice), tutti chiamati alla sfida di girare senza prove.

Ma i grandi progetti, confortati oltretutto, come in questo caso, dal rigore implacabile delle ricostruzioni, dalla miseria senza paludamenti estetici, da un’iconografia ispirata alla ieraticità degli affreschi (encomiabili le scenografie di Laura Perini e Mattia Federici e i costumi di Andrea Sorrentino ), non possono ormai rinunciare a tempi più distesi, meno contratti di racconto.

Coetaneo di Avati, Marco Bellocchio ha affrontato per raccontare l’assassinio di Moro la sfida della serialità, che generazionalmente non gli appartiene. Avati è stato un pioniere della serialità tv, il massimo pioniere italiano anzi, con quei gioielli -ancora insuperati, a mio parere- che furono a fine anni ’70 Jazz Band e Cinema!

Gli incontri di ispirazione che costellano il film (il racconto di Paolo e Francesca, per bocca di Bernardino da Polenta, intorno al falò dei soldati di Campaldino, dove Dante ha combattuto; il castello di Romena, dove Dante raccolse le testimonianze sull’atroce fine di Ugolino, e dove Castellitto ha una straziante “trovata d’attore” leggendo della miseria del poeta; quel mosaico dell’Abside di Sant’Apollinare in Classe, a Ravenna, che sembra dettare le parole del Paradiso), tutti questi intriganti dettagli meriterebbero più respiro, e vorresti sentir risuonare le terzine incredibili della Commedia. Vorresti avere il tempo di soffermarti sul volto di Gianni Cavina, sulle sue memorie di notaio ultimo amico di Dante, moribondo su un letto profetico, perché l’attore ci ha lasciato appena due mesi dopo.

Il “libro dei morti” che un Dante ridotto all’accattonaggio va componendo sul lenzuolo che porta avvolto al corpo è simmetrico alle tante morti del film, tormentate, deturpate, senza falsi pudori: il padre di Boccaccio nella discarica dei cadaveri della peste, la madre di Dante bambino, Beatrice, il Sommo Poeta medesimo, consumato dalla malaria tra i cenci. Vorremmo restarci di più, in questo universo, vorremmo un Avati più radicale nel liberare la sua vena gotica, che affiora nell’orrorifica “bambola nuziale” che fa da tramite tra la morta Beatrice e la figlia superstite di Boccaccio.

In tanti hanno sognato di affrontare Dante, Zeffirelli e Fellini tra loro. Lars Von Trier gli ha dedicato un grottesco risvolto del suo The House that Jack Built, nel 2018. Nell’era delle piattaforme, Pupi Avati poteva osare di più.

Fonte Huffington Post