Stop al genocidio. Dai Bafta ai Cèsar i palchi d’Europa non indifferenti, mentre scoppia il caso Berlinale
All’indomani della serata di chiusura della Berlinale, palco di proteste e messaggi contro il genocidio a Gaza, in Germania esplode la polemica. La destra attacca e chiede il taglio del finanziamento pubblico al Festival. Mentre la direzione (uscente) si dissocia con un comunicato dalle posizioni prese dagli artisti. Intanto i palchi d’Europa chiedono il cessate il fuoco, dai Batfa inglesi ai Cèsar francesi. Cosa accadrà agli Oscar? …
Accuse di antisemitismo alla Berlinale. Il caso scoppia all’indomani della cerimonia di chiusura. “Troppi” i messaggi di registi e attori per il cessate il fuoco a Gaza secondo la stampa tedesca. Chi ha indossato abiti- messaggio per lo stop al genocidio, chi si è espresso in modo diretto, come la vincitrice Mati Diop e Eliza Hittman, regista statunitense che, ricordato le proprie origini ebraiche, ha lanciato un appello per la fine delle violenze nella Striscia. Senz’altro, però, il momento più toccante è stata la vittoria di No Other Land come miglior documentario, un film realizzato da un collettivo israelopalestinese, in cui viene mostrata la distruzione dei villaggi palestinesi in Cisgiordania.
Nel discorso, due degli autori hanno lanciato stoccate durissime. Prima chiedendo esplicitamente che la Germania sospenda la vendita di armi a Israele, poi spiegando in termini semplici ma efficaci il regime di apartheid subito dal popolo palestinese. Poco dopo di loro, sono saliti sul palco anche Guillaume Cailleau e Ben Russell, vincitori del Premio per la sezione Encounters, indossando una kefiah.
Per i direttori uscenti, Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek, sì è aperta dunque una questione difficile da gestire. In Germania, infatti, certe tematiche scottano più che altrove, conseguenza indiretta delle responsabilità dirette per gli orrori della Shoah. Per una parte dell’opinione pubblica, addirittura, basta una kefiah per gridare all’antisemitismo. Riuscire a mettere insieme, quindi, l’identità di un festival aperto alle questioni scottanti del mondo con questa atmosfera pesante e polarizzata è stata una dura sfida.
Riuscita peraltro piuttosto bene fino alla chiusura. A Potsdamer Platz, la piazza simbolo della kermesse, per alcuni giorni era stata installata una piccola costruzione chiamata TinyHouse. Lì, berlinesi e frequentatori del festival potevano trovare uno spazio minuscolo per dialogare faccia a faccia sul conflitto a Gaza, coadiuvati da due attivisti, uno israeliano e l’altro palestinese. Un’idea praticamente geniale per accontentare tutti e porsi dal lato del dialogo.
Ma con la cerimonia la situazione è sfiggita di mano. La direzione del festival ha diffuso una nota in cui ha messo nero su bianco che le opinioni di ospiti e premiati non riflettevano in alcun modo quelle del comitato direttivo. A rendere ancor più ingarbugliata la questione è arrivato poi un post pubblicato dal canale Instagram della sezione Panorama, una delle sezioni del Festival, in cui compariva il messaggio: «Un genocidio è un genocidio, siamo tutti complici». Repentina la risposta della Berlinale: si è trattato di un hackeraggio. Tanto che è subito partita la denuncia contro ignoti. Mentre il settimanale di destra Die Welt ha chiesto, addirittura, il taglio di tutti i finanziamenti pubblici alla Berlinale.
Sono messaggi che alle orecchie italiane suonano nella stessa tonalità di quello censorio inviato dall’amministratore delegato della Rai Roberto Sergio, all’indomani dello “stop al genocidio” pronunciato da Ghali – attraverso il pupazzo – dall’Ariston di Sanremo.
Sui palchi d’Europa, insomma, non tutti gli artisti stanno a guardare. Per i premi britannici, Bafta, a lanciare il messaggio è stato il produttore James Wilson, premiato per La zona di interesse, che proprio rifacendosi al film ha tracciato un parallelo tra il genocidio operato dai nazisti e le decennali politiche repressive di Israele; l’infaticabile e immancabile Ken Loach, poi, ha portato sul tappeto rosso un messaggio per il cessate il fuoco. In Francia, invece, la cerimonia dei Cèsar ha visto alcuni premiati lanciare messaggi per il cessate il fuoco, senza che questo abbia portato a dibattiti su scala nazionale, né a toppe di riparazione ex post.
Va aggiunto però che alcuni mesi fa la regista Justine Triet, Palma d’oro per Anatomia di una caduta, proprio dal palco della Croisette si era pronunciata duramente nei confronti delle riforme volute dal presidente Emmanuel Macron. Chissà se la sua esclusione dalla corsa all’Oscar per la Francia (che le ha preferito il culinarioThe Taste of Things di Trần Anh Hùng) non sia stata causuale. Finendo comunque al centro di accese polemiche, viste anche le sei nomination ottenute dal suo film.
Cosa riserverà, allora, la notte delle stelle da sempre palcoscenico per campagne e proteste? Certo, è difficile immaginare che il tema possa essere la guerra a Gaza, ma certamente le elezioni statunitensi di novembre aleggeranno sul palco del Dolby Theatre.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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