Sulla route 66 della provincia italiana. Vicari nella battaglia (della giustizia) per Emanuele, con un grande romanzo
Wilma Labate ha letto per noi “Emanuele nella battaglia”, romanzo d’esordio di Daniele Vicari appena uscito nelle librerie per Einaudi, in cui il regista di “Diaz” ricostruisce l’omicidio di Emanuele Morganti, più noto come il delitto di Alatri. Un racconto che inchioda fino alla fine. Un autore che nei boschi si sente a casa, che sente l’autorità della natura e la rispetta. Un romanzo che fa pensare alla route 66, per la scrittura che si immerge con lo stesso interesse intimo dei grandi scrittori americani, in una vicenda che ci lascia sopraffatti dalla brutalità. Madri, grandi icone come quelle del western, padri appesantiti dal fucile da caccia, fratelli e amici dipinti con un ritmo perfetto per il cinema ma assolutamente fedele alla realtà, senza mai trasgredire alla regola della verità…
Il racconto inchioda fino alla fine senza lasciare tregua mentre produce un sentimento di incredulità che monta via via che si avanza; per Emanuele si nutre un immediato moto dell’animo che la scrittura non costruisce mai perché sempre asciutta.
Sarà merito delle montagne dove Daniele Vicari è nato, del clima intransigente che rende il carattere pronto alle intemperie o dell’aria sottile che si respira da quelle parti, che entra nei polmoni e libera di ogni scoria.
Scrittura massiccia e sensibile di un autore che nei boschi si sente a casa, che individua i versi degli animali selvatici, le tracce, l’odore, che sente l’autorità della natura e la rispetta.
Un bagaglio prezioso per avventurarsi nella scrittura perché dotata di rigore.
Ho pensato ai grandi spazi americani, alle mandrie di bufali, a quegli scenari che hanno reso immenso il cinema perché quei luoghi, sembra paradossale, intorno a Frosinone, sono aspri e vuoti e sono descritti con stupefacente autenticità che a molti, come me, nati e cresciuti in città, sono perfettamente sconosciuti.
Emanuele nella battaglia ci fa sentire piccoli e provinciali, altro paradosso, perché la lotta di Emanuele si svolge in provincia ma sulla strada. Pochi interni e tanti esterni, come il teatro della tragedia.
Non dentro al Mirò, la discoteca di Alatri, ma fuori, sulla piazza e le strade antistanti. Forse per questo, mentre leggevo, pensavo alla route 66, per la scrittura che si immerge con lo stesso interesse intimo dei grandi scrittori americani, in una vicenda che ci lascia sopraffatti dalla brutalità. Leggiamo e continuiamo a chiederci disperatamente perché.
Emanuele vive da quelle parti e una sera, contro il parere di Melissa, sua sorella, che diventerà il cardine inossidabile di tutta l’inchiesta, decide di andare con la fidanzata in discoteca, al Mirò di Alatri.
Pochi minuti di macchina per raggiungere il rumore ossessivo della tecno ma dentro, dopo un alterco alcolico, si scatena l’aggressione: Emanuele diventa preda dei buttafuori, trascinato all’esterno e picchiato selvaggiamente.
Dopo avere tentato di difendersi, Emanuele scappa ma viene raggiunto e ucciso di botte da chi decide di essere il padrone incontrastato del territorio. Un branco di balordi.
Daniele Vicari racconta con affetto e precisione l’evoluzione della storia, dalla descrizione delle famiglie, compresa la propria con un pudore quasi religioso, fino alla prima sentenza del tribunale di Frosinone. Si incolla a Melissa, sorella maggiore di Emanuele e la segue fedelmente in tutti gli sviluppi dell’inchiesta, assecondando la sua tenacia e incastonando via via le immagini e il respiro di quei luoghi magici che tanta ferocia hanno espresso.
Eppure sono luoghi di solenne bellezza, quasi incontaminati, abitati da persone che ci si muovono dentro con sapienza antica, dotati di una cultura dei boschi e dei monti che se ne andrà con i vecchi rimasti.
Le madri, grandi icone come quelle del western, i padri appesantiti dal fucile da caccia, i fratelli e gli amici dipinti con un ritmo perfetto per il cinema ma assolutamente fedele alla realtà, senza mai trasgredire alla regola della verità. Il racconto di una storia accaduta solo due anni fa, tanto potente da superare ogni fantasia.
Wilma Labate
Regista e sceneggiatrice. I suoi film sono spesso caratterizzati da forti tematiche sociali e da figure femminili fuori dagli schemi. Debutta nel ’92 con "Ambrogio", seguono "La mia generazione" (candidato italiano all’Oscar per il miglior film in lingua straniera nel ‘96), "Domenica" (2000), i film collettivi, "Un altro mondo è possibile" (2001) e "Lettere dalla Palestina" (2002), "Maledettamia" (2003), "Signorina Effe" (2007), "Qualcosa di noi" (2014), "Raccontare Venezia" (2017) e "Arrivederci Saigon" (2018). Tra le sue sceneggiature, "La pecora nera" di Ascanio Celestini (2010)
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