The Tribe, la potenza del cinema senza parole
In sala dal 28 maggio il film dell’ucraino Myroslav Slaboshpytskiy, girato nella lingua dei segni. L’educazione criminale di Sergey nel violento collegio per sordomuti. Né “The Artist” né “Blancanieves”, ma un noir nella zona di Chernobyl, senza precedenti, dove lo sguardo è tutto. Da non perdere…
The Tribe sabota il racconto cinematografico come oggi lo conosciamo. Il 41enne regista ucraino Myroslav Slaboshpytskiy ha girato nella lingua dei segni il film, dal 28 maggio nelle sale italiane. Senza parole né sottotitoli, la pellicola Gran premio alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2014 non è una furba operazione di recupero del muto, come The Artist, né la reimpaginazione di un archetipo silenziando i dialoghi, come lo spagnolo Blancanieves di Pablo Berger. È’ un’altra cosa: evitando di esaurirsi nella riflessione sul linguaggio, è un film che racconta una storia.
Il sedicenne Sergey arriva in un istituto per sordomuti. Qui per sopravvivere dovrà inserirsi in un sistema di piccola criminalità: i ragazzi compiono furti, le ragazze si prostituiscono, la quotidianità è segnata dalla violenza e il predominio stabilito con sfide crudeli. Sergey non è figura positiva, anzi: non esita a calarsi nel codice criminale eseguendo le azioni necessarie per acquistare credibilità nella tribù. Egli si innamora di Anna, una ragazza che si prostituisce, endemica a questo universo, che ha come unico orizzonte ottenere un passaporto per scappare in Italia. L’intreccio attinge alle educazioni siberiane dei nostri anni, ovviamente, ma per la piega degli eventi anche alla tragedia classica e soprattutto al noir: il piccolo delinquente che si innamora della prostituta, innescando il precipitare della situazione, è un topos cine-letterario da La cagna di Renoir a Melville, da Scorsese a Romanzo criminale. Non è un posizionamento morale né un’ambizione di giustizia, dunque, ma l’amore per una donna fatale a fungere da grimaldello che scardina il microcosmo illegale e lo fa esplodere. Tracce di noir nella zona di Chernobyl. Il cuore di The Tribe non è però il sordomutismo né la crime story, ma risiede esattamente nella dialettica tra i due elementi: la scelta scardinante di linguaggio e la storia archetipica che racconta.
Slaboshpytskiy offre continui suggerimenti visivi per riempire la mancanza del verbo: a partire dal carrello iniziale che segue Sergey all’arrivo in collegio, senza parole certo, ma già scandito ritmicamente dai passi del giovane che sale la scalinata. È subito centrale il ruolo del rumore: in particolare, la nostra registrazione dei rumori contro il non udirli dei personaggi pone lo spettatore nel ruolo di “lettore onnisciente” dei sensi. Da parte sua la disabilità non è solo contorno ma elemento funzionale dell’intreccio, ovvero l’essere sordomuti determina le situazioni chiave e ne governa lo svolgimento: si muore senza urlare, in questo film, e allora il ragazzo muto che finisce sotto un camion se avesse potuto parlare si sarebbe salvato. Allo stesso modo l’atto finale di Sergey è costruito proprio sulla mancata percezione del suono. Come dimostrazione del dialogo fertile tra i piani, a sua volta la storia si avvale della condizione dei personaggi e la rende simbolo: il non parlare segna il ritorno a un livello afono primordiale, a una società della violenza preistorica che esercita la legge del più forte prima della scoperta della parola. In soli due casi i personaggi “parlano”, nel senso che emettono un suono a decibel più elevato: mentre fanno l’amore e nella ripresa dell’aborto, eros e thanatos, a rafforzare il topos assoluto che domina il narrato.
Il regista non azzera il linguaggio ma ne propone un altro, basato solo sulla visione e sulla necessità di osservare, togliendo l’alibi della sceneggiatura parlata e costringendo a soffermarsi sulla costruzione dell’inquadratura e l’uso del colore. Per esempio, a scandire la fine di una lezione c’è una campanella lampeggiante che non possiamo sentire ma solo guardare. Attraverso questa tecnica, miracolosamente, non c’è mai l’impressione di non realizzare cosa accade, al contrario la studiata trama visiva aumenta l’incidenza degli scenari e il sentire interiore dei personaggi: la vista occupa lo spazio dell’udito, non serve la parola per comprendere. Lo dimostra la splendida scena di sesso tra Sergey e Anna, che inizia come una sequenza di prostituzione e poi si dipana, evolve e finisce in un bacio d’amore. Slaboshpytskiy ottiene un doppio risultato: da una parte chiama in causa lo spettatore, senza sottovalutarlo con l’abuso di spiegazione verbale, ma invitandolo a guardare fino in fondo. Dall’altra smaschera la retorica insita nel racconto cinematografico: l’archetipo si ripete uguale a se stesso e il risultato non cambia, si può reinstallare in ogni lingua e dunque anche quella dei segni. Il cinema 2015 è un dispositivo usurato che si rinnova solo con il coraggio di un’ipotesi alternativa: dire addio al nostro linguaggio, proporre un altro alfabeto senza parole.
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