Tripoli, una (brutta) storia anche italiana. Nel doc con poca storia di Giovanna Gagliardo
Il 7 e il 10 febbraio (ore 18) alla Casa del cinema di Roma, “Il Mare della Nostra Storia”, il documentario di Giovanna Gagliardo selezionato per la rassegna “ItaliaDoc”, curata da Maurizio De Rienzo e passato alla scorsa Festa di Roma. La storia dei rapporti dell’Italia e degli italiani con la Libia. Con poco spazio ai crimini compiuti dal fascismo e molto alla belle époque a seguire, vissuta dalla comunità italiana ed evocata da tanti vip. Feste e serate eleganti, senza nessun eco di quel che c’era fuori …
Ci sono dei rischi a raccontare la storia da un angolo di visuale. A raccontare le storie. Possono essere calcolati o meno ma sempre rischi sono. Comunque, a scanso di equivoci, questo metodo è anche da sempre quello di chi scrive queste righe. In ogni caso, qui, questa tecnica narrativa è dichiarata esplicitamente.
Il qui è Il Mare della Nostra Storia, un film di Giovanna Gagliardo, presentato alla scorsa Festa di Roma e in programma il 7 febbraio alla Casa del cinema di Roma (ore 18) nell’ambito di “Italia Doc”, rassegna di cinema del reale curata da Maurizio Di Rienzo. Il metodo, quel metodo, lo descrive la stessa regista: “Ho voluto far parlare i protagonisti, senza una voce fuori campo che interpreti gli avvenimenti”.
E gli avvenimenti sono lunghi, lunghi un secolo: il lungometraggio prova a raccontare la storia della Libia, l’altra sponda del Mediterraneo. Meglio: la storia dei rapporti dell’Italia e degli italiani con la Libia. Una storia che comincia il 5 ottobre del 1911, quando la regia marina italiana impose la resa alla guarnigione turca di Tripoli e occupò la città. Data che segna l’inizio dell’impresa coloniale italiana. E finisce il 20 ottobre del 2011, quando a Sirte viene catturato e linciato Gheddafi.
In mezzo? C’è la storia della comunità italiana di Tripoli. Raccontata con le stupende immagini dell’Istituto Luce che la regista si è andata a spulciare con un lavoro certosino. Immagini e filmati che svelano soprattutto il lato grottesco di quell’avventura. Grottesco che si fa ridicolo con l’avvento del fascismo. Sfilate, archi, coriandoli, esibizioni muscolari. Con le voci dei cinegiornali dell’epoca.
E quel che non c’è? La violenza, la drammatica violenza di quel regime? Non potendo essere affidata alle cronache, la racconta lo storico intervistato, Luigi Goglia. Tre minuti e cinquanta su un’ora e trentacinque di film. Per ricordare cosa è stata l’occupazione italiana in Libia, quando nel ’30 il regime attuò il piano di deportazione della popolazione della Cirenaica. “Colpevole” di sostenere la rivolta di Mohammed Omar Mukhtar. Forse uno dei crimini più agghiaccianti di tutte le storie coloniali. Un crimine di cui non si nasconde la ferocia, non lo fa certo Luigi Goglia, ma stranamente ne sottolinea anche la validità “dal punto di vista strettamente militare”: la strategia di togliere l’acqua in cui nuotano i guerriglieri. In quel caso, nel ’30, spostando forzatamente quasi centomila civili, con decine di migliaia di morti (nessuna ricerca fissa un numero esatto).
Poi il fascismo finisce e la comunità italiana resta là dove era cresciuta. È questo il vero cuore del film. Svela un’enclave bella, ricca, affascinante: Tripoli. Dove tutte le comunità religiose vivono a stretto contatto, in una città tranquilla, per molti tratti – almeno per gli intervistati – addirittura lussuosa.
Una belle époque tratteggiata con le interviste anche a tanti vip. Da Marina Cicogna che racconta i suoi incontri libici con Jeanne Moreau ad Anna Maria Cancellieri, l’ex ministro che narra le sue vacanze sulla spiaggia. Storie, piccole storie, feste, serate. Tante serate eleganti. La spesa ai mercati multietnici, si direbbe oggi. Nessun eco di quel che c’era fuori e lontano dalla comunità italiana.
Solo l’ex ministro Cancellieri dice che l’Italia ha portato tante infrastrutture, però loro, i libici, contestavano il fatto che comunque quei ponti e quelle strade se li sarebbero potuti costruire da soli. Non riuscendo neanche ad immaginare che forse, quei popoli, non aspiravano allo stesso sviluppo di quest’altra parte del Mediterraneo.
Ma la belle époque finisce. Quando nel ’69, il ventisettenne Gheddafi rovescia la monarchia di re Idris. E l’anno dopo – accompagnandola con altisonanti parole d’ordine che echeggiano la stagione anticoloniale – decreta l’espulsione degli italiani dalla Libia. Una fuga precipitosa per trentamila. Ma i mesi precedenti a quella data sono forse ancora più drammatici: quelli in cui Tripoli rivela un volto razzista. Verso i “non arabi”, verso le altre religioni.
E ancora: un assaggio di questo razzismo lo dovette sperimentare sulla propria pelle anche David Zard, l’impresario musicale. Lui, che apparteneva alla piccola comunità ebraica tripolina, che portava in città i dischi dei Rolling Stones quando nessuno li conosceva, fu costretto a scappare dopo la guerra dei sei giorni, nel ’67. Senza nulla.
Il resto è storia recente. Il riavvicinamento di Gheddafi all’Occidente, l’amicizia con Berlusconi – segnata dalla vista del dittatore libico a Roma, con l’enorme strascico di polemiche per le pretese machiste nel cerimoniale -, la rivolta, la rivolta poi inquinata dalle influenze occidentali, la guerra tribale più che civile, la fuga, la cattura, la morte del dittatore.
Il film termina, come detto, con le immagini di sette anni fa. E con una sorta di lieto fine: col lavoro, supportato dall’ambasciata italiana, di una fotografa libica, che si impegna a preservare il valore storico e architettonico delle parti più antiche di Tripoli.
Da qui in poi però c’è la cronaca. Una guerra che non trova fine, ma soprattutto una guerra di tutti contro i disperati che attraversano il deserto per provare a raggiungere il Mediterraneo. E che vengono fermati nei lager dalle milizie libiche. Lager che esistono da almeno un decennio, ma ora cresciuti e ampliati a dismisura, col silenzio dell’Europa. Con l’accordo esplicito di un governo italiano, che si dichiarava antitetico a quello di Berlusconi.
Anche adesso a Kufra o a Sebha ci sono piccolissime comunità di italiani. Si contano sulla punta di una mano. Sono i volontari delle Ong, che provano a salvare qualcuno di quei migranti detenuti. Forse il documentario avrà bisogno di un seguito. Anche se questa è solo l’aspirazione di chi guarda alle cose dal proprio angolo di visuale.
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