Una bomba contro la bomba. L’atteso “Oppenheimer” è in sala per dire basta all’atomica

In sala dal 23 agosto (per Universal Pictures) l’attesissimo nuovo film di Christopher Nolan, “Oppenheimer”, già campione d’incassi negli States dove è uscito a luglio. Dall’omonimo libro premio Pulitzer di Kai Bord e Martin J. Sherwin Robert (appena ripubblicato da Garzanti) la storia dell’inventore della bomba atomica, lo scienziato ebreo J. Robert Oppenheimer, di cui seguiamo l’ascesa e caduta. Un film potente per mettere una parola definitiva contro l’atomica …

Bello vedere le sale di nuovo piene nonostante il caldo di agosto. Bello vederle piene di giovani coinvolti in temi di strettissima attualità come il rischio atomico, il valore della deterrenza nucleare e la possibilità concreta della distruzione del pianeta ad opera dell’uomo.

Bello poi che a rappresentare l’evento di apertura della nuova stagione cinematografica sia un film di qualità come Oppenheimer, scritto, diretto e co-prodotto da Christopher Nolan (che vanta un notevole precedente su argomento bellico, Dunkirk) e che – non accidentalmente – sia un film tratto da un libro, in questo caso la biografia scritta da Kai Bord e Martin J. Sherwin Robert, Oppenheimer, appena ripubblicato da Garzanti in occasione dell’uscita in sala  del film.

Infine va rimarcato il fatto che, in piena mobilitazione del mondo hollywoodiano contro l’uso dell’Intelligenza artificiale nel cinema, la grande produzione si è misurata ancora una volta con mezzi di espressione “tradizionali”, se tali si possono considerare l’intreccio basato su una storia vera, il ricorso ad attori in carne ed ossa senza processi di invecchiamento e ringiovanimento se non dovuti al procedere della storia, e l’uso funzionale – sebbene un po’ ridondante – degli effetti speciali, che qui si concentrano soprattutto sulla materializzazione dei pensieri del protagonista secondo un modello reso celebre dal maestro Alfred Hitchcock.

Ciò detto, il film di Nolan ripercorre la nota vicenda dello scienziato ebreo J. Robert Oppenheimer, impegnato nella ricerca sulla fisica nucleare in Europa alla vigilia della guerra e poi richiamato negli Stati Uniti, dove gli verrà conferito l’incarico di guidare il progetto Manhattan in un centro appositamente costruito nel deserto del New Mexico. Si tratta del più importante, segreto e mastodontico progetto scientifico mirato alla costruzione dell’arma che sconfiggerà i tedeschi (ma che poi sarà usata contro il Giappone e diventerà il principale strumento di deterrenza nella Guerra fredda con gli ex alleati russi) in tempi tali da battere i nemici nella corsa alla scoperta della fissione nucleare e quindi all’uso della bomba atomica per stabilire le sorti della guerra in modo rapido, secco e definitivo.

Sovrapponendo con un montaggio pirotecnico le diverse epoche in cui si svolge la vicenda, prima, durante e dopo la guerra, il racconto – con le immancabili divagazioni sentimentali – segue una certa linearità fino al punto culminante, cioè l’ultimo esperimento condotto con successo nel deserto del New Mexico e il successivo bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, che non ci viene mostrato ma di cui si intuisce l’impatto devastante.

Dopo di che il film prende tutta un’altra piega, concentrandosi sui ripensamenti del protagonista e su un intrigo politico dai contorni non sempre chiarissimi, ma soprattutto poco funzionali a quella che era forse l’ambizione della regia. E cioè mettere una parola definitiva su una vicenda che è stata un vero e proprio spartiacque nella storia del mondo e che ancora oggi pone domande fondamentali: era giusto bombardare un paese stremato e ormai sull’orlo della resa come il Giappone, provocando una distruzione immane e duratura nel tempo, con centinaia di migliaia di vittime? La deterrenza, predicata dallo stesso Oppenheimer, ha funzionato e funziona tuttora come monito all’uomo su ciò che comporta l’uso dell’arma nucleare? O non c’è piuttosto il rischio di un’escalation, drammaticamente riportato in auge dalla guerra in Ucraina?

Fatto sta che l’ultima parte del film si dilunga (un po’ troppo) su una specie di processo cui Oppenheimer viene sottoposto da una commissione politica che ha l’incarico di valutarne l’affidabilità ai fini della sicurezza nazionale, scandagliandone trascorsi e frequentazioni filocomuniste – siamo in piena epoca maccartista – ed eventuali responsabilità nelle infiltrazioni spionistiche a favore della Russia, che infatti non impiegherà molto a dotarsi di un proprio arsenale nucleare.

La riabilitazione finale di Oppenheimer, se non risolve i dubbi sollevati dall’intera vicenda, lascia giustamente aperto il giudizio su un personaggio da sempre controverso e “divisivo”, senza spingere il pedale della simpatia o dell’antipatia dettata da ragioni politiche, o semplicemente esistenziali. Attori superlativi, a cominciare dal protagonista Cillian Murphy e dall’intensa Emily Blunt (la moglie) per finire a un quasi credibile Einstein interpretato da Tom Conti, passando dal generale-archetipo Usa Matt Damon, da un bravissimo (ma superfluo) maestro d’intrighi Robert Downey jr e da altre figure di contorno come Niels Bohr (Kenneth Branagh) e Gary Oldman nei panni un po’ istrionici del presidente Truman, rendono il film degno di essere visto. La musica incalzante ne asseconda i passaggi più significativi.