“Valeria” e il precariato Millennial. Su Netflix il “Sex and the City” iberico della generazione “impostora”


La fiction iberica continua a piovere su Netflix con la saga letteraria di Elísabet Benavent Valeria, dramedy madrileño in due stagioni che sotto la patina plastificata di sessualità disinibita e materialismo urbano alla Sex and The City sbircia in traumi e insicurezze di una generazione Millenial precaria, iperconnessa e iperansiogena, affetta da “sindrome dell’impostore” e in bilico sulle scivolose responsabilità dell’età adulta.

Nel mare magnum seriale targato Netflix la Spagna surfa sull’onda del fenomeno globale La casa di carta mixando furbescamente generi e cliché che fanno gola all’intrattenimento leggero formato streaming. Dopo il teen thriller Èlite, Toy Boy col suo stripper criminale e la tarantiniana fuga delle tre prostitute in Sky Rojo, la fiction iberica continua a sgomitare nella top 10 dei più visti  Netflix con questa nuovo dramedy pastellato madrileño.

Siamo nel cuore pulsante della capitale latina, dove un quartetto di amiche in piena crisi dei 30 si destreggia tra piroette sessuali, carriere in bilico, crepe familiari e stigma sociale in una rocambolesca scoperta del sé e del desiderio femminile cucita su ego fragile e frenesie di una generazione ad alta velocità.

Valeria (Diana Gómez) è la Carrie Bradshaw spagnola affetta da “sindrome dell’impostore” che battaglia con la tastiera del pc a caccia di ispirazione per il suo nuovo romanzo, sprofondata nelle sabbie mobili del frigido matrimonio con Adri (Ibrahim Al Shami J.) mentre il belloccio tentatore di turno, Víctor (Maxi Iglesias), stuzzica le sue fantasie erotiche sopite (e l’opzione estrema del divorzio, ombra nera che accompagna la protagonista per tutta la prima cavalcata di episodi).

Lola (Silma López), interprete risucchiata dal narcisismo machista dell’amante sposato, ricalca gli appetiti libertini alla Samantha Jones col suo humor spregiudicato e il cambio partner sessuale facile. Carmen (Paula Malia) è invece la grafica pubblicitaria a secco di romanticherie, vulcano di idee alla scrivania ma timidissima nel flirtare – poi accontentata con Borja, quintessenza del trentenne mammone con cui finisce a rivaleggiare in azienda – mentre Nerea (Teresa Riott), per finire, è l’impeccabile avvocato in tailleur con lo scheletro dell’omosessualità da nascondere, ingessata nel perbenismo bacchettone della famiglia bon ton, troppo all’antica per reggere al coming out della figlia lesbica.

Con una prepotente dose di scene fisiche ad accendere la trama – dalle adulterine più spinte alla 50 sfumature di grigio, alla più composta intimità di coppia fino al sesso queer – le quattro eroine si confrontano con gli spigolosi quesiti che infestano l’ingresso nel mondo adulto, spauracchio del Millennial medio appeso alla corda del precariato esistenziale.

Possibile che il mestiere di scrivere sia declassato a capriccio adolescenziale dal disfattismo boomer? È giusto pubblicare un’opera prima sotto pseudonimo per piegarsi alle politiche di profitto di una casa editrice? Si interroga Valeria ormai al verde, con un matrimonio al capolinea e sul punto di arrendersi all’irresistibile odiosa diceria che d’arte non si campa.

E inseguire relazioni tossiche scevre di responsabilità sentimentale – com’è di moda oggi con “match” intercambiabili – fingendo appagamento ma desiderando affetti stabili nel mentre, non significa forse autoinfliggersi immaturamente una prolungata tortura emotiva?

È la scottante verità con cui litiga Lola, mangiauomini sbarazzina arroccata in un’algida spregiudicatezza che è tutta facciata. Carmen invece cammina nevroticamente sul filo degli scivolosi equilibri lavoro-vita privata da cui casca più e più volte seminando danni in ufficio e nella sua relazione, mentre Nerea milita nella cerchia blindata dell’attivismo transfemminista in esplorazione di sessualità, omofobia e nozioni obsolete di mascolinità e femminilità da sradicare,  sognando l’indipendenza economica dai suoi.

Quello che in Spagna è stato un successo editoriale schizzato in vetta tra i best seller (oltre un milione di copie vendute dell’intera saga in quattro libri), si incastra nella cornice del piccolo schermo in due stagioni snocciolate in 8 episodi ciascuna, sullo sfondo di una socialità vertiginosa che cavalca le frequenze lampo di dating app, uber, fast fashion e musica trap.

Ed è in questo pulsante tripudio narrativo che si scioglie l’angosciosa miscellanea di traumi e logoranti insicurezze che bombardano una generazione molestata subdolamente da pressioni sociali, modelli inarrivabili, stimoli continui e una paternalistica retorica dell’eccellenza che dall’alto distanzia sogni e bisogni di giovani smarriti nel marasma di strade percorribili.

Soprattutto nella paralisi creativa di Valeria – bollata in famiglia come la secondogenita difettata e inconcludente che investe nelle idee sbagliate – è facile leggere lo sconforto diffuso (camuffato in una goffa sbadataggine funzionale allo storytelling rosa stile Sophie Kinsella) di chi arranca nel dedalo di sentieri angusti che è la scoperta del proprio posto nel mondo.

Così, per quanto questo prodotto firmato Plano a Plano cavalchi stereotipi comodi alla leggerezza del “Netflix & chill”, puntellato com’è da ritratti non esattamente inediti e costruito su un tappeto emotivo e tematiche in cui la scrittura non sa affondare – vedi la violenza di genere accennata in una sequenza flash di pedinamenti e nel virale slogan “Non una di meno” che si limita a prestare il titolo a un episodio – la regia di María López Castaño ha il merito di aver aggiornato un fenomeno di costume come Sex & The City coniugando al “verbo Millennial” uno show televisivo insuperato per l’audace narrazione di una  femminilità consapevole che dialoga col proprio desiderio, finalmente pacificata col tabù del sesso.

Le citazioni del colossal 2000 di Darren Star sono infatti esplicitissime in Valeria: dalla giungla erotica della Grande Mela e il suo fermento – trapiantato a Madrid – al morboso pettegolezzo da aperitivo, dall’inno all’amicizia autentica che sa alleviare i fallimenti fino alle gioie di una liberazione erotica che parla il linguaggio di donna senza per forza declinarsi al maschile, usando il piacere come strumento di potere sociale per invertire il solito racconto fallocentrico.

Insomma l’adattamento dei romanzi d’evasione di Benavent – che come la protagonista del suo libro esordisce sul mercato autopubblicandosi nel 2013 sul web – non si inventa nulla che Candace Bushnell non abbia già raccontato superbamente nelle sue pagine di chick lit….ma sotto la superficie sfavillante di frivolo materialismo ed eventi modaioli che ricordano Il diavolo veste Prada, si fa largo un ritratto generazionale che scopre luci e ombre di un’ etá radiosa solo nella vetrina cangiante di Instagram, che comunica con l’intermittenza dei like e che dietro la patina di schermi bugiardi sguazza invece a tentoni nelle complessità di una realtà 2.0 claudicante.